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« Torna agli articoli di Tommaso Scandroglio
Il Papa è andato da Fazio. Un Papa da un altro papa. Perché anche il secondo ama pontificare. I due viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda. Ed infatti è la seconda volta che Francesco viene intervistato dal fratacchione che dalla Rai è migrato al sole del denaro, sui lidi della Nove.
Francesco è il primo Papa della storia che viene intervistato in un talk. Giovanni Paolo II fece solo una telefonata, una volta, intervenendo a Porta a Porta e Bruno Vespa, sfoderando in quella occasione signorilità e alta professionalità, non si permise di fare nemmeno un accenno di domanda, sebbene l'occasione fosse ghiotta perché storica.
I tempi cambiano e con essi i papi. Il Papa da Fazio è diventato ancora più pop. Francesco ama essere popolare, appunto pop. Nei toni: le sue encicliche hanno i medesimi accenti colloquiali, imprecisi ed ondivaghi della chiacchierata avuta con Fazio. E nei contenuti: Francesco sfoggia sempre lo stesso frasario stereotipato che non urta nessuno se non quelli impegnati sulle barricate a difendere scampoli di verità. I luoghi comunisti del Pontefice venuto dalla fine del mondo - epiteto che sinistramente si può intendere in senso temporale - provano solo che esiste anche la banalità del bene (cit.). La guerra è male e bisogna dialogare, è difficile fare la pace, dietro le guerre c'è il commercio delle armi, l'uomo è libero di decidere cosa fare, bisogna parlare e ascoltare i bambini, e fare lo stesso con i nonni, il Signore ci accoglie per quello che siamo. La fede è diventata una confort zone.
Dicevamo che il Papa da Fazio diventa sempre più pop, ossia contribuisce ad erodere l'autorità del vicario di Cristo - appellativo che Francesco ha cancellato dall'annuario pontificio - sebbene egli tenga stretto il suo ruolo autoritario. Di facciata bonaccione, dietro la facciata autocratico. Lo smantellamento della figura papale è iniziato, come è noto, da quel «Buonasera» pronunciato senza paramenti la sera della sua elezione. Un «Buonasera» che ha dato la buonanotte al «Sia lodato Gesù Cristo» e dunque al ruolo di pontefice. Poi è proseguito con le telefonate erga omnes, la Panda, le scarpe nere e non rosse, la borsa portata da sé, le strette di mano che hanno sostituito i baciamano, i selfie fatti con i fedeli, la improvvisata, così studiata, in un negozio di dischi nella capitale, i social. Da qui la copertina su Rolling Stone e i suoi interventi su Sportweek, Vanity Fair Italia, Vogue Italia e la Gazzetta dello Sport, contrappuntanti dagli accondiscendenti dialoghi su Repubblica con un altro papa, più laico di lui, Eugenio Scalfari. E perché allora non spingersi con coerenza oltre e partecipare ad un reality? Non sarebbe un modo efficace per farsi sentire vicino alla gente?
IL DISEGNO DI PIO XII
Il 4 maggio 1952 La Domenica del Corriere mise in prima pagina il disegno di un Pio XII che in accappatoio si faceva la barba con un rasoio elettrico. Guareschi criticò quella scelta così svilente per la persona del Pontefice. Perché, diciamo noi, il Papa puoi anche sentirlo come uno di famiglia, ma a patto di non minare la sua sacralità, di immiserire la sua trascendenza. In The Young Pope di Sorrentino, il fantastico e fantasioso Pio XIII, di fronte alla possibilità di stampare la sua faccia su alcuni piatti commemorativi, risponde sdegnato che non avrebbe messo nulla perché è il nulla a rappresentare al meglio l'elevatissima dignità del Pontefice che infatti è qualificato come sommo. Pontifex per i latini è il costruttore di ponti, significato poi traslato in ambito religioso: per i Romani il pontefice è colui che costruisce un ponte tra la terra e il cielo. I ponti evocati spesso da Francesco invece collegano solo le persone tra loro su questa terra, non sfidano la verticalità del Cielo, ma rimangono orizzontali come gli aneliti di un cuore borghese.
Pio XIII aveva ragione: bisogna fare come Mina, Salinger, Kubrick, Banksy, i Daft Punk. «Nessuno di loro si fa vedere. Nessuno di loro si lascia fotografare. L'assenza è presenza». Spariti dalla scena diventano mito. L'assenza e non la presenza in TV è la forma del mistero, dell'assolutamente altro, della trascendenza che travalica le polverose e scontate minutaglie del quotidiano. È il silenzio a dire tutto e questo perché se il Papa fa un passo indietro, Dio fa un passo avanti. Un Papa per la gente, nella gente, tra la gente, con la gente non fa il papa, ma l'agente di commercio che vende il proprio prodotto. Le continue interviste, le miliardi di parole scritte e dette, la valanga di foto hanno lo stesso effetto della decisione di battere sempre più moneta a fronte della medesima fonte aurea: la svalutazione.
FAN DEL CONVENZIONALE
Allora salvateci da un Papa artatamente ordinario, personificazione attoriale della normalità, schiacciato sul consueto e sul solito, prevedibilissimo, fan del convenzionale, ricoperto dagli stracci della futilità. Lui così nemico della mondanità si è fatto amico il mondo. E poi un Papa pop non suscita l'identificazione di chi vuole distinguersi dalla massa, sfuggire dall'omologazione: solo i santi ci riescono. Lo vogliamo invece non popolare, ma impopolare perché controcorrente e non per partito preso o perché originale, ma solo perché «la verità offende per sua natura» (R. Scruton, Bevo dunque sono, 2010, p. 27). Lo vogliamo fatto di spirito che non si abbassa a parlare di condizionatori e di raccolta differenziata. Lo vogliamo perso nel Cielo, irraggiungibile, che risplenda della regale umiltà che rifugge la massa, le foto, i microfoni, le telecamere: perché è bene umiliare la propria persona, non la Cattedra di Pietro. Lo vogliamo così trasparente e diafano che attraverso lui possiamo vedere Dio. Non lo vogliamo presenzialista, ma assenteista da ciò che è transeunte perché totalmente assorbito dall'eterno, dalle cose ultime: l'ordito e la trama delle nostre speranze. La via d'uscita al non senso che ammorba le esistenze inconsapevoli di molti.
La sovraesposizione mediatica, invece, lascia in bocca a credenti e non credenti un sapore insipido e nell'anima una fastidiosa sensazione di piattume, financo di mediocrità, di noia alla Sartre. La liquefazione della figura del pontefice avviene perché lo stesso si pone come prodotto commerciale da consumare. Ma sullo scaffale di questo supermercato che è la contemporaneità lui scompare, dal momento che non ha più caratteristiche specifiche che lo differenziano da un Mattarella presidente della Repubblica o da un esotico Dalai Lama. Viene annullato perché comune: non più distinto, ma indistinto.
Il suo profilo scolora, si fa scialbo perché cerca la novità soprattutto dottrinale, ma finendo solo per rispolverare vecchie eresie così consuete per i nostri compagni di viaggio postmoderni. Il nuovo è appannaggio di Cristo che fa nuove tutte le cose. Al di fuori di Lui, il nuovo è appannaggio dei pubblicitari, degli inventori - e a quante invenzioni abbiamo assistito negli ultimi anni! - degli imprenditori, dei circensi. I Papi invece devono custodire il vecchio, perché il deposito della fede fu sigillato per sempre con la morte dell'ultimo apostolo, certi che quelle verità così antiche faranno nuovi tutti gli uomini.
Nota di BastaBugie: Luisella Scrosati nell'articolo seguente dal titolo "Inferno vuoto? A negarlo è Gesù" parla di quello che ha detto in tv Papa Francesco nel programma del fazioso Fazio.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18 gennaio 2024:
«A me piace pensare l'inferno vuoto, spero sia realtà»; così papa Francesco intervenendo in collegamento, domenica sera, alla trasmissione Che Tempo Che Fa. «Quello che dirò non è un dogma di fede ma una cosa mia personale», ha affermato il Papa.
Non ha dichiarato che l'inferno non esiste, non ha detto che è vuoto, non ha sostenuto l'apocatastasi; eppure in quelle parole, apparentemente lecite, c'è tutto il dramma che la Chiesa sta vivendo da oltre mezzo secolo. In un'altra intervista di duemila anni fa, più genuina e meno mediatica, mentre Nostro Signore stava andando verso Gerusalemme, «un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?"» (Lc 13, 23). La risposta a questa domanda mette in evidenza tutta la distanza, non di tempo né di spazio, ma di senso, tra Gesù Cristo e il suo vicario: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno».
Il Signore, che è la misericordia fatta carne, non cerca di spegnere l'inquietudine della salvezza dal cuore dell'uomo, ma sembra addirittura confermarla: molti non entreranno. Per questo, voi che mi ascoltate, voi che mi interrogate, sforzatevi di entrare.
Il seguito del passo del Vangelo di Luca, che è considerato il Vangelo della misericordia per la presenza delle tre parabole della pecora smarrita, della dracma perduta e del figlio prodigo, è ancora più forte: «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori» (Lc 13, 25-28). Non si tratta affatto di un passo isolato. Nel Vangelo di San Matteo ritroviamo un monito dello stesso tenore: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7, 13-14). Ancora una volta, il contrasto è netto: molti si perdono, pochi trovano la strada della vita.
Ecco perché San Paolo, l'Apostolo che si è logorato per annunciare che la salvezza di Dio è a disposizione non solo dei Giudei, ma anche dei pagani, proprio lui, in una lettera che si contraddistingue per l'affetto e la consolazione, esorta i cristiani di Filippi così: «attendete alla vostra salvezza con timore e tremore» (Fil 2, 12). Con timore e tremore: perché? Perché, fedele all'insegnamento del Signore, egli sapeva molto bene che una vasta categoria di peccati chiude le porte per l'ingresso nel Regno: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (1Cor 6, 9-12). Nessuna illusione a riguardo, giustificata da una malintesa misericordia di Dio, nessuna falsa tranquillità basata sul fatto che i condizionamenti di ogni sorta renderebbero quasi impossibile peccare.
Sant'Agostino, nel libro XXI del suo capolavoro De Civitate Dei, già si trovava costretto a rintuzzare i falsi insegnamenti dei «misericordiosi origenisti», che intendevano le parole evangeliche a modo loro, ipotizzando una salvezza universale. Costoro, «difendendo la propria causa, tentano quasi di andare in senso contrario alle parole di Dio con una misericordia, per così dire, superiore alla sua» (XXI, 24. 1). Misericordia maiore conantur. Il Novecento è stato il secolo durante in quale questi "conati" sono diventati pensiero teologico dominante. Addirittura nel 1948, un Louis Bouyer poco più che trentenne, già doveva constatare il crollo della dimensione escatologica nella vita cristiana, ed in particolare lo svuotamento della realtà dell'inferno e il pericolo concreto della dannazione eterna: «manteniamo un inferno per metterci in regola con dei testi fin troppo chiari; ma, in privato, rassicuriamo le persone che nessuno rischia di andarci».
Ora, nemmeno più in privato. C'è differenza tra la speranza che molte persone si salvino e quella che l'inferno sia vuoto, quella differenza abissale che passa tra il lavoro generoso e indefesso per la nostra e l'altrui conversione e la continua predicazione delle "scusanti" per il peccato. La missione, la predicazione sulla vita eterna, la vita ascetica, la lotta senza sconti contro il male, in tutte le sue forme, il richiamo continuo al pentimento e alla penitenza, l'indicazione delle esigenze dei comandamenti di Dio sono le conseguenze della prima; l'affermazione continua dei condizionamenti psicologici, sociali, culturali, la morale dei singoli casi e delle circostanze, la ricerca di soluzioni perché tutti possano ricevere sacramenti e benedizioni, senza alcun appello alla conversione, sono le manifestazioni della seconda.
Un lettore, sempre molto attento e acuto, ha sbloccato in chi scrive il ricordo di un passaggio della Leggenda del Grande Inquisitore, del romanzo I fratelli Karamazov. Il dialogo tra il Grande Inquisitore e Gesù Cristo, tornato nel mondo e subito arrestato, dopo aver compiuto il miracolo della risurrezione di una bambina, pone al centro la pretesa di edificare un ordine migliore di come l'abbia fatto il Figlio di Dio. E in questo mondo migliore, non poteva mancare quella misericordia maior di cui parlava Sant'Agostino, una misericordia capace di una presunta salvezza più universale di quella voluta da Cristo: «Noi consentiremo loro di peccare, essi sono deboli, privi di forza e così ci ameranno come bambini, diremo loro che ogni peccato verrà riscattato se commesso col nostro permesso, che permettiamo loro di peccare in quanto li amiamo e che prenderemo su di noi il castigo ed essi ci ameranno come benefattori (...). Si profetizza che Tu tornerai con i Tuoi eletti, con la Tua gente forte e altera, ma noi diremo che essi salvarono unicamente se stessi, mentre noi li salvammo tutti... e diremo: "Giudicaci se puoi e osi". Anch'io mi proponevo di far parte del numero dei Tuoi eletti, dei forti, ma sono tornato in me e mi sono unito a coloro che hanno corretto l'opera Tua. Ho lasciato gli orgogliosi e sono tornato agli umili, perché gli umili fossero felici». Così il Grande Inquisitore.
Se il Redentore degli uomini annuncia che molti finiranno là dove è pianto e stridore di denti, perché dichiarare il proprio personale piacere nel pensare che l'inferno sia vuoto? Se l'Apocalisse annuncia che quanti non sono stati scritti nel libro della vita vengono gettati nello stagno di fuoco (cf. Ap 20, 15), perché "sperare" che questo stagno sia disabitato? La speranza teologale si basa sulla fede e la fede si fonda sulle parole del Signore, sulla Rivelazione di Dio. Dunque, la speranza che non delude (cf. Rm 5, 5) poggia sull'annuncio evangelico della salvezza che, in Cristo, è offerta a tutti, che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2, 4) e perciò ci ha dato ogni grazia in Cristo; ma anche sul fatto che «molti, ve l'ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine» (Fil 3, 18-19).
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