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Sinceramente non riesco a capire perché tanti uomini di Chiesa esorcizzino la parola "castigo" quando si parla di calamità come l'attuale epidemia di coronavirus, come ha fatto il card. Scola nella sua intervista a Repubblica, e lascino trapelare il loro biasimo nei confronti dei loro rari confratelli che fanno ricorso a un linguaggio vagamente imparentato con quello di castigo parlando di "ammonimento" o di "segno" divino, come ha fatto don Mauro Leonardi con padre Livio direttore di Radio Maria. A dire il vero, credo di capire il perché di queste linee di condotta, e quello che capisco non mi piace.
Certo, se si fa ricorso al vocabolo "castigo" o ad altri simili bisogna poi chiarire bene cosa questo significhi in termini cristiani. Non si può certamente lasciar credere che chi è colpito da una malattia o da un'altra catastrofe prevalentemente naturale è punito in maniera personalizzata per i peccati che lui ha commesso; né è possibile associare determinate colpe, comportamenti anche molto diffusi, malvagità collettive, ingiustizie strutturali al dolore e alla morte che colpirebbero collettivamente chi vive in certi luoghi in certi tempi. Su questo è stato molto chiaro, e rivoluzionario rispetto alla mentalità della sua epoca, Gesù Cristo, quando ha spiegato che gli sfortunati morti schiacciati sotto il crollo della torre di Siloe non erano più colpevoli di quelli che l'avevano scampata, e che il cieco nato non era tale a causa di peccati suoi o dei suoi genitori. Detto questo, però, occorrerebbe anche spiegare perché Dio, presentato come buono fino alla misericordia, permette questi mali: perché permette la malattia, la morte, il dolore innocente, il trionfo terreno dell'ingiustizia, ecc. È la domanda che gli uomini si fanno dall'inizio dei tempi moderni, convenzionalmente a partire da L'aratore di Boemia di Johannes von Saaz, un poema dei primissimi anni del XV secolo dove un contadino che ha perduto la moglie si ribella a tutte le giustificazioni metafisiche con cui la morte in persona risponde alle sue proteste. Gli uomini di Chiesa d'oggi, velocissimi nell'esecrare un confratello che abbia dato adito anche lontanamente a un fraintendimento sul tema del rapporto fra calamità e colpa personale o collettiva, sono lenti e titubanti quando si tratta di rispondere alle obiezioni del contadino; oppure semplicemente svicolano.
Il Catechismo della Chiesa cattolica spiega che il dolore, la malattia, la morte sono conseguenze del peccato originale dei nostri progenitori. Il cattivo uso della libertà da parte loro ha prodotto una corruzione che si è trasmessa ai discendenti ma che non è solo morale, relativa alla nostra inclinazione al male, ma anche fisica, riguardante tutto il creato. Come scrive san Paolo nella lettera ai Romani, «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 19-21) Il catechismo spiega che "colui che l'ha sottomessa" è l'uomo col suo peccato (CCC n. 400). Chi si definisce cristiano non può cavarsela alla leggera dicendo o pensando che il peccato originale è una vecchia storia alla quale non crede più nessuno. Comunque la si interpreti e la si concepisca, è una storia dalla quale dipende tutta la veridicità dell'annuncio cristiano: «La Chiesa, che ha il senso di Cristo, (1Cor 2,16) ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al Mistero di Cristo» (CCC n. 389).
Chiarito che anche le epidemie, come gli altri mali fisici e morali, sono conseguenze del peccato originale, è accettabile definirle "castigo divino", benché non si tratti di castighi mirati a colpe personali specifiche? O questa sarebbe un'antropomorfizzazione dell'agire di Dio che alla fine sfocia inevitabilmente nella superstizione, o per lo meno in una comprensione inadeguata di Lui da parte nostra? Beh, non c'è nessuno che non abbia presente che nella Bibbia, nel Vangelo, nella liturgia della Chiesa e in tante preghiere canoniche Dio è presentato come Colui che premia e che castiga, che si adira e che si commuove fino alla misericordia. Dal libro di Tobia nell'Antico Testamento («Vi castiga per le vostre ingiustizie, ma userà misericordia a tutti voi», Tb 13,5) alle descrizioni del giudizio finale che fa ripetutamente Gesù, per esempio nel capitolo 25 di Matteo («Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo... Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, ... E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna»). Questo linguaggio descrive compiutamente Dio e il suo agire? No, perché Dio è trascendente, e quindi noi possiamo parlare di Lui solo in termini analogici. Non c'era bisogno di aspettare i pur intelligenti esponenti della "teologia negativa" o "apofatica" del XX secolo, protestanti come Paul Tillich e Karl Barth: a definire Dio come il "totalmente altro" non sono stati per primi i pensatori tedeschi, ma sant'Agostino nelle Confessioni. E i medievali sapevano benissimo che la nostra conoscenza delle cose divine è fatta di similitudini, metafore, analogie. Se lo ricorda anche chi non ha studiato filosofia medievale ma ha letto la Commedia di Dante, dove a un certo punto l'autore chiarisce: non è che beati e dannati si trovino veramente nelle condizioni in cui ve li descrivo, ma è che così ci appaiono per il nostro vantaggio spirituale.
Allora perché parliamo di un Dio che manifesta ora la Sua ira, ora la Sua tenerezza? Che ama e che castiga? Semplicemente perché siamo esseri umani, e solo con parole e concetti umani possiamo esprimerci, elaborare i nostri pensieri e le nostre esperienze, entrare in rapporto con gli altri. E che questo non dispiaccia troppo a Dio lo si può dedurre dal fatto che «non horruit Virginis uterum», non gli fece ribrezzo essere ospitato nel ventre di Maria e assumere la carne umana in Gesù Cristo. Gli uomini di Chiesa che pensano di cavarsela nascondendo sotto il tappeto metà degli appellativi e degli aggettivi con cui di Dio si parla nelle Scritture, nella Tradizione della Chiesa e negli scritti dei santi e delle sante e riproponendo con larghi sorrisi solo i vocaboli rassicuranti ed edificanti, incorrono in una contraddizione di fondo: se la Trascendenza di Dio non deve essere intaccata attribuendogli un comportamento umano come è quello del castigare, non può esserlo nemmeno attribuendogli qualsiasi altra caratteristica o propensione, fosse pure quelle dell'amare, del perdonare, del rispettare la libertà umana, ecc. Questi commentatori non risolvono nessun problema, tranne quello di preservare la propria rispettabilità di fronte al mondo. Questa è la sgradevole sensazione che si prova leggendoli. Cerchino invece di esercitare un po' di benevolenza verso i loro confratelli che vedono nel coronavirus un "monito" rivolto all'umanità. Non è forse vero che tutto è segno per chi crede? Ne abbiamo fatto esperienza nella vita personale, quando abbiamo patito una perdita o un'afflizione, e poi abbiamo riconosciuto che era un avvenimento provvidenziale che ci richiamava alla necessità della nostra conversione; perché non si potrebbe proporre lo stesso tipo di lettura di eventi che riguardano la collettività, se questa lettura - sempre analogica, sempre figurata - aiuta a stimolare conversioni? Chi dice oggi «Il tempo si è fatto breve» riattualizza la tradizione di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, che non c'entra nulla col terrorismo psicologico ma molto con la necessità di decidere per o contro Dio. Chi prova orrore di tutto questo resta col problema di rispondere alle proteste del moderno contadino di Boemia, che non si accontenterà della rispettabilità sociale dell'interlocutore, e finirà per voltargli le spalle.
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