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Come è noto, al Governo italiano, quando si parla dell'epidemia da Covid, piace molto utilizzare una terminologia bellicistica. Accettando tali metafore, si potrebbe dire che quando nel febbraio del 2020 ebbe inizio l'invasione nemica, il primo fronte a crollare - come in una sorta di Caporetto - fu la Medicina del Territorio. Una resa senza resistenza. Gli ordini dello Stato Maggiore furono di abbandonare le trincee e le difese, ripegando nelle ridotte ospedaliere.
Fuori di metafora, la strategia del Governo fu, come ben sappiamo, di rinunciare a interventi di cure domiciliari. Ai Medici di Medicina Generale, il termine corretto con cui indicare coloro che molto spesso sono ancora oggi chiamati "medici base", eredi dei vecchi medici della Mutua e prima ancora dei medici condotti, fu chiesto di chiudere gli ambulatori, e di non recarsi a domicilio dei pazienti. Ciò ebbe le conseguenze che conosciamo. Non vennero nemmeno forniti presìdi di protezione, e tantomeno protocolli di cura. Mentre l'esercito era in rotta, ognuno cercò di arrangiarsi come poteva, e non pochi furono coloro che tentarono in scienza e coscienza di curare queste forme di gravi polmoniti, utilizzando farmaci ben noti. In seguito, dal Governo arrivarono non senza ritardo delle linee guida, ma erano quelle tristemente note della "Tachipirina e vigile attesa". Molto probabilmente, se la linea della Medicina Territoriale avesse tenuto, se il Comando Supremo non l'avesse abbandonata, le perdite del conflitto sarebbero state molto inferiori.
GRANDE RESET NELLA SANITÀ
Pur senza che ci sia stata un'attenta analisi di questi spaventosi errori del 2020, oggi il Governo vuole mettere mano ad una riorganizzazione della Medicina del Territorio. Dei cambiamenti radicali, che fanno pensare che sia iniziato un profondo Reset anche in campo medico. Per la sanità territoriale starebbero per essere messi sul piatto 9 miliardi di euro. Una somma considerevole che lascia immaginare l'importanza per il Governo di un settore strategico per le cure e per le professionalità coinvolte, ovvero i medici di famiglia.
Rivedere il ruolo del medico di medicina generale diventa pressoché indispensabile, e così si sta facendo strada un'ipotesi che cambierebbe profondamente il ruolo del medico di medicina generale, ma anche dei pediatri di libera scelta: il passaggio ad un rapporto di dipendenza. In pratica, medici di base e pediatri non sarebbero più - come ora - dei liberi professionisti convenzionati col Sistema Sanitario, Nazionale e Regionale, ma dei dipendenti pubblici, esattamente come lo sono i Medici Ospedalieri.
Pur con dei correttivi per i professionisti in attività da molto tempo, il rapporto di dipendenza sembrerebbe gradito ai giovani medici neolaureati, che avrebbero un posto pubblico sicuro, e soprattutto per alcune sigle sindacali. La CGIL spinge con forza su questa soluzione. C'è inoltre un disegno più vasto di riorganizzazione della rete territoriale: non più studi medici del singolo professionista, ma la futura sanità territoriale si dovrà basare sulle cosiddette "Unità complesse di cure primarie" (Uccp): strutture che ospiterebbero più medici di base, infermieri e segreteria in grado di tenere aperti ambulatori e servizi diagnostici di base con maggiore continuità.
DISTRUTTA L'AUTONOMIA PROFESSIONALE DEL MEDICO
Questo sarebbe indubbiamente un vantaggio, ma sacrificando l'autonomia professionale del professionista, o quel che ne resta, perché tra protocolli e linee guida e altri binari obbligati di tipo burocratico questa autonomia è da tempo erosa, e la pandemia lo ha rivelato in modo clamoroso. Molti temono che le Uccp, così come un altro tipo di struttura sanitaria di cui si sta ipotizzando, le cosiddette "Case di Comunità" (con un linguaggio che sembra uscito da un film sugli Anni '70) trasformino quello che un tempo non lontano era chiamato anche "medico di famiglia" da libero professionista a lavoratore subordinato di un'organizzazione statale.
D'altra parte, il Segretario della CGIL ha dichiarato: «Noi chiediamo una norma stringente che porti i medici di base a lavorare nelle case della comunità. Il rapporto "fiduciario" tra paziente e medico di base spesso si rivela un rapporto "privatistico". Noi siamo favorevoli al rapporto fiduciario, ma tra il paziente e il servizio sanitario nazionale: l'equipe multiprofessionale deve rappresentare la cellula vitale del Sistema sanitario".
Le Case di comunità rappresenterebbero dunque il centro territoriale strategico per la presa in carico delle persone, e secondo la visione strategica che le prevede, non potrebbero funzionare in quella che è ritenuta una "frammentazione" dei rapporti di lavoro libero professionali. All'interno di Case e Ospedali di comunità saranno collocate tutte le funzioni di cura primaria. Il tutto, naturalmente, normato e codificato dai protocolli che i sanitari che opereranno in queste strutture, di cui saranno dipendenti con tutti gli obblighi che ne conseguono, dovranno scrupolosamente applicare.
Una Sanità non più a misura di paziente, ma a misura di regole statali.
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