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«Man mano che il corpo perde funzionalità, diminuisce il punteggio, finché non viene revocato il diritto a vivere. È un’offesa per tutti, ma soprattutto per noi malati».
Ancora una volta una persona, un essere umano, diventa strumento di una ideologia. Dalla sentenza della Corte di cassazione non escono né vincitori né vinti ma solo una grande sconfitta: la vita, che non viene più riconosciuta bene inalienabile e indisponibile, dotata intrinsecamente di dignità. In questa sentenza, invece, la dignità della vita viene subordinata al concetto di qualità, determinata da alcuni parametri arbitrariamente precostituiti. La vita non è più considerata degna di essere vissuta a prescindere, non è più un valore assoluto ma diventa paragonabile a una sorta di patente a punti. Quasi che, a mano a mano che il corpo perde funzionalità, i punti debbano diminuire fino a quando viene revocato il diritto di vivere perché la vita ha ormai perso la sua ragione di essere e la persona la sua dignità di esistere.
La morte non è un diritto, è un fatto. Non sussiste la necessità di garantirla da parte di uno Stato di diritto. Il vero diritto che bisogna in primo luogo garantire a tutti i cittadini è quello alla vita, definito 'inalienabile' anche dalla Costituzione.
Invece nel caso di Eluana e in tutte quelle situazioni cui le persone si trovano in condizioni di grave disabilità che richiedono sforzi adeguati per garantire assistenza, presa in carico e sostegno anche economico ai malati e alle famiglie sembra quasi che non si voglia raccogliere la sfida. Meglio scegliere, forse per opportunità, di mettere per sempre fine al problema, privando una persona del suo sacrosanto diritto di vivere. Non possiamo, nel caso specifico di Eluana, certo parlare di accompagnamento al morire. Se venisse davvero compiuto l’ultimo atto, sarebbe un vero e proprio omicidio! Non essendo Eluana malata terminale, ma solo una grave disabile, non possiamo affermare che l’alimentazione e l’idratazione artificiale siano strumenti terapeutici e come tali potenzialmente identificabili come accanimento terapeutico. Non è stata considerata la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità: infatti tale sentenza contrasta inevitabilmente con il punto F dell’articolo 25 , dove si afferma il dovere da parte degli Stati di «prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazioni di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità».
Nel caso si procedesse all’ultimo atto, quindi, Eluana morirà di fame e di sete. Io penso che attraverso un’adeguata assistenza si può evitare che lo scafandro in cui si trasforma il corpo di chi ha perso le proprie funzioni motorie imprigioni un’anima che nonostante tutto può continuare a volare. È questo il messaggio che una società che ambisca ad essere a misura d’uomo deve raccogliere.
Un corpo malato o disabile non può diventare un fattore di isolamento, esclusione ed emarginazione dal mondo. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute o di disabilità rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia, come la vivo io, malato di Sclerosi laterale amiotrofica; questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati, dei disabili e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società. Purtroppo, oggi, una certa corrente di pensiero ritiene che la vita in certe condizioni si trasformi in un accanimento e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco di opportunità. Non bisogna lasciare che siano la trascuratezza, l’abbandono e la solitudine a decretare una vita indegna di essere vissuta. È necessario aprire una concreta discussione su che cosa si stia facendo per evitare l’emarginazione delle persone con gravi patologie invalidanti e su quanto realmente si sta investendo nel percorso medico e nella continuità assistenziale domiciliare, chiedendosi con molta sincerità se proprio dalla mancanza sempre più evidente di assistenza domiciliare qualificata, supporto adeguato alla famiglia, reti di servizi sociali e sanitari organizzati, solidarietà, coinvolgimento e sensibilità da parte dell’opinione pubblica scaturiscano quelle condizioni di sofferenza e di abbandono a causa delle quali alcuni malati chiedono di porre fine alla propria vita.
In definitiva, non credo che i cittadini di un Paese che voglia dirsi civile possano accettare passivamente il fatto di poter disporre o meno del proprio diritto alla vita in base a un semplice strumento giuridico. Altrimenti, paradossalmente viene più tutelata la decisione di interrompere una vita che non la scelta di chi vuole continuare ad esercitare il proprio diritto alla vita. E chi volesse essere davvero libero di vivere dovrebbe continuare ad affrontare una vera e propria battaglia quotidiana per avere a disposizione tutti quegli strumenti attraverso cui poter raggiungere il bene più grande che, invece, dovrebbe essere garantito in partenza e a tutti: la vita.
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