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CHE FIGURA FANNO I SACERDOTI IN TELEVISIONE?
di Vittorino Andreoli
 

Il rapporto Chiesa-televisione credo sia un grande tema del futuro. A dircelo è l’esperienza delle società come quella americana che si ritengono più evolute della nostra. Non a caso si è lì da tempo aperta una promettente stagione per quanto riguarda la comunicazione religiosa veicolata attraverso la televisione. Personalmente sono un entusiasta di questo mezzo, almeno nella misura in cui sa porsi a servizio dei bisogni profondi delle persone. E sono anche affascinato dalle opportunità che esso offre. Mi è capitato ad esempio di partecipare a dei programmi di Sat2000, che è un canale che stimo in quanto si è tenuto fin qui alla larga dalla logica commerciale, e ho sperimentato in prima persona le potenzialità di questo strumento. È importante a mio avviso che la Chiesa mostri di avere il dominio di questi mezzi, che sappia usarli bene e in maniera coerente con la sua missione. Senza dire che vi sono categorie come gli ammalati per le quali la televisione è un’opportunità straordinaria per partecipare come possono ai sacri misteri. Per i più giovani poi la televisione rappresenta un linguaggio semplicemente congeniale: basti ricordare che cosa assicura questo mezzo a eventi straordinari come i mega concerti delle grandi star internazionali o, per stare in ambito religioso, alle Giornate mondiali della gioventù. Qui tuttavia affrontiamo un capitolo abbastanza circoscritto, qual è la presenza del prete in televisione. Che non è necessariamente un soggetto frivolo, se è vero che esistono canali e programmi che hanno ambizioni culturali, nei quali dunque la presenza di qualche sacerdote è decisamente auspicabile. E lì il prete c’è in nome della sua stessa missione.
Diverso è invece quando si coinvolgono determinati sacerdoti in rapporto alla loro prestanza fisica o alla loro capacità attrattiva. In quel caso si tratta, diciamolo chiaramente, di preti di spettacolo, che si trasformano in attori anche se loro pensano di non esserlo, e anche se le loro motivazioni sono altre. La gente però li percepisce così, alla stregua delle altre figure televisive. È evidente che una tv che presume di rappresentare la società nel suo insieme abbia bisogno anche del prete. E dunque lo assolda (il verbo è corretto anche per i cachet che si percepiscono) allo scopo di usarlo secondo il proprio scopo, che non è certo la diffusione della fede cattolica. Ai programmi televisivi della domenica pomeriggio importa poco della fede, mentre fa molto comodo disporre di un prete per metterlo a confronto (o in opposizione) con un’altra figura, e così fomentare la discussione-spettacolo. In un simile contesto tuttavia il sacerdote si estrania dal suo ruolo e dalla sua missione, diventando a sua volta un soggetto da televisione. Naturalmente non chiunque può aspirare a tale ruolo, che esige caratteristiche che non tutti posseggono: bisogna essere televisivamente belli, avere la battuta facile, essere costantemente capaci di stupire e di riuscire spiritosi. Si parla non a caso di apertura mentale, in nome della quale il prete dev’essere pronto a baciare la presentatrice, naturalmente molto procace, e il cui seno è stato in precedenza abbondantemente inquadrato. Solo a queste condizioni infatti l’ingaggio del prete produce i suoi effetti piccanti.
Personalmente mi ha molto colpito la presa di posizione del Corpo dei Carabinieri di fronte al caso di una loro militare invitata ad andare in televisione. Una volta verificato che una simile performance non era coerente con gli scopi dell’Arma, l’interessata è stata messa dinanzi a una scelta netta: o la televisione o l’appartenenza al corpo. E dire che la stessa carabiniera poteva rientrare in un’abile strategia comunicativa, ma il Comando non è sceso a patti, e ha dato una lezione di serietà valida per tutti. Occorre rilevare che il prete ambìto dalle televisioni non è scambiabile con un uomo qualunque e neppure con un prete qualsiasi, in quanto la tv sa bene che cosa vuole, che cosa fa spettacolo, che cosa attira l’audience, e dunque è del tutto preferibile che si tratti di un prete un tantino critico, meglio se un po’ fuori norma, ma non troppo, perché i telespettatori devono percepirlo come uomo di Dio, se no non c’è gusto. E questi d’altra parte sa ben muoversi come uomo di spettacolo, capisce bene infatti che va in video proprio perché porta la talare.
Dunque, sfrutta l’appartenenza alla religione per fare dello spettacolo: senz’abito non figurerebbe neppure tra le comparse.
Per la verità, non sono molto interessato al fenomeno, seppur nella galleria dei profili che andiamo tracciando non poteva mancare la figura del prete ambìto dalla televisione, in quanto vi sono cittadini di questo Paese che del prete sanno quasi esclusivamente ciò che il modello televisivo suggerisce. Succede allora che l’antipatia ispirata dal prete presente nel tal canale diventa una barriera psicologica che ostacola l’apprezzamento per qualunque altro sacerdote attivo ad esempio nelle parrocchie. Così come l’attrattiva esercitata dal sacerdote solitamente ospitato dal canale concorrente finisce per far sfigurare i preti con cui ci si imbatte, in quanto esteticamente non curati né vezzeggiati.
Il prete bello fa sfigurare tutti gli altri brutti, come il prete che non piace fa pensare che gli altri siano ancora peggio.
Il prete televisivo è un narciso di Dio, ossia un poveretto che ricerca la propria identità di consacrato specchiandosi su un teleschermo. Se non è un narciso, allora è vittima dell’ipomaniacalità, in quanto mosso dalla convinzione di essere un prete particolare, cui il Padre eterno ha attribuito doti speciali. E la cosa curiosa è che costui trova sempre un superiore succube del suo fascino, che gli permette ciò che Dio proibirebbe. La terza possibilità è che si tratti di un prete isterico che ha bisogno di attirare su di sé l’attenzione altrui, e per questo si espone mostrando un coraggio da leone o comportandosi da eroe. Nessuna meraviglia allora che sia ricercato dalla televisione che, per natura sua, è attratta agli effetti speciali. La quarta categoria è quella del prete che ingenuamente crede di poter fare apostolato, e dunque di servire in quel modo Dio, ma ben presto si accorge che in televisione va chi si lascia omologare al mezzo, e dunque che l’idea di gestirla è una semplice illusione.
Vorrei citare almeno un esempio di prete che andando in televisione sia riuscito a fare onore alla propria missione, aumentandone il fascino, ma – mi spiace – non me ne vengono in mente. I casi noti rientrano secondo me tutti più o meno nelle categorie che ho richiamato. E proprio per le caratteristiche che li hanno resi televisivi provo per loro un insieme di amore e di malinconica riprovazione.
Triste è anche imbattersi in preti che soffrono per l’impedimento ad andare in televisione loro decretato dai superiori, quando poi si trovano ad assistere a performance di colleghi cui nulla viene negato. In questo senso, un maggior equilibrio nelle disposizioni non farebbe male. A questo punto il lettore si chiederà che cosa c’entri quanto enunciato con la mia dimensione televisiva. E poiché uno psichiatra si deve sempre mettere in gioco, voglio riassumere i criteri cui ispiro le mie scelte. Innanzitutto vado pochissimo in video: all’incirca una volta ogni dieci inviti, ed è un rapporto destinato a distanziarsi con l’esperienza.
Noto infatti che il mio scetticismo aumenta con gli anni. In ogni caso non accetto mai di partecipare a dibattiti o a contraddittori, ponendo come condizione di essere il solo a parlare, e questo non per alterigia o presunzione, ma perché sono convinto che la contrapposizione, al pari della baruffa, sia funzionale allo spettacolo, non alla comprensione delle questioni. Ogni volta che accetto un invito, mi chiedo quale possa esserne il senso per gli spettatori, sulla base di due parametri: il primo, cosa significhi per i miei pazienti ciò che andrò a dire, e secondo, che cosa implichi quello che dirò per la psichiatria, che ha bisogno di essere a sua volta capita dalla gente.
Perché essa possa compiere il suo corso necessita infatti della stima di chi è malato come di chi è vicino agli ammalati. Voglio dire che non ha senso andare in televisione per se stessi o per il proprio narcisismo, quando invece si rischia di esibire solamente le proprie miserie.
Bisogna inoltre essere estremamente scrupolosi, perché in televisione è sufficiente una parola sbagliata per farsi del male, e per bruciarsi non solo sul piano personale.
  Certo, la televisione rappresenta una grande opportunità di comunicazione, e in questo senso occorre valutare bene ciò a cui si rinuncia. Ogni rifiuto che si oppone è un’occasione che potenzialmente si perde.
Seppure rimane sempre il libro come strumento comunicativo più controllato, e dunque più affidabile, e comunque in grado di suscitare delle riflessioni più profonde. In questo senso, capita di poter andare in televisione per parlare dei propri libri, il che costituisce sempre una chance eccellente. Anche se sempre più di rado queste rubriche riescono a salvarsi dall’inquinamento commerciale, e dalla tentazione del fare bella mostra di sé, il che francamente non può che scoraggiare.
Lo psichiatra svolge una professione molto delicata, che richiede di essere amministrata con grande oculatezza. Nulla di paragonabile al 'mestiere' del prete, tuttavia, e infatti siamo liberi di accettare o meno qualunque invito, sapendo di dover rispondere alla propria coscienza, che io avverto severa in me, anche come testimonianza verso la mia famiglia e i miei figli. Dicevo all’inizio che stimo Sat2000, che è un ambiente straordinario, perché consente ai suoi ospiti di tirar fuori il meglio di sé: per questo trovo incomprensibile che a seguirla non siano tutti i cristiani di questo Paese.

 
Fonte: 19/11/2008