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In estate la rana crocifissa (col bicchiere di birra e un uovo nelle mani) esposta al museo di Bolzano.
Ora la donna seminuda crocifissa del noto manifesto contro gli stupri, che ricorda la famosa copertina sull’aborto fatta dall’Espresso il 19 gennaio 1975 (rappresentava una donna nuda incinta e crocifissa).
Guai a chi tocca questi “capolavori” chiedendo rispetto per il simbolo cristiano della morte di Gesù (guai anche al Papa che aveva criticato la “scultura” di Bolzano).
Subito incorre negli anatemi dei salotti radical-chic, pronti a vedere in ogni critica un vile attacco alla “libertà di espressione” perché – signora mia – “l’arte deve essere sempre libera e l’artista mai deve avere limitazioni alla sua creatività”.
Ammesso e non concesso che si tratti di arte, resta da capire perché la parodia della crocifissione o la provocazione metaforica della stessa manda tutti costoro in brodo di giuggiole, mentre il Crocifisso vero scatena immediatamente l’istinto della rimozione e della censura.
Ricordiamo tutti quante urla scandalizzate provocò, in questi stessi salotti, il film “The Passion” di Mel Gibson che rappresentava realisticamente i supplizi della crocifissione a cui Gesù fu effettivamente sottoposto.
Quante anime belle deprecarono la “volgarità” di quelle immagini, quanti cuoricini delicati si dissero traumatizzati da tale brutalità. La si giudicò un’operazione cinica.
La rubrica sull’Espresso di Umberto Eco aveva questo sommario: “ 'La Passione' è un film che vuol guadagnare molto denaro offrendo tanto sangue e tanta violenza da far apparire 'Pulp Fiction' un cartone animato”.
Natalia Aspesi, il 6 aprile 2004, tuonò dalla “Repubblica” contro quel “troppo sangue” deprecando il fatto che il film non fosse vietato ai minori: “Una commissione di censura punitiva, in Italia, non ha previsto nessuna limitazione. Gli pare giusto” denunciava la Aspesi “che a qualsiasi età si assista a un'orgia di sangue, a due ore di sofferenza splatter, al film più horror mai arrivato nei cinema”.
Secondo la “giornalista democratica” in questo (e solo in questo caso!) la censura era necessaria.
Niente crocifissione di Gesù per non turbare la nostra gioventù: non importa se poi, secondo le statistiche, un bambino italiano, prima di aver concluso le elementari, ha visto in media in tv 8.000 omicidi e 100 mila atti di violenza.
Ma la Passione di Gesù giammai deve essere mostrata nella sua cruda realtà (non sia mai che si pongano qualche domanda su quel pericoloso e inquietante Gesù…).
Invece le parodie della crocifissione – dicevamo – spopolano nei salotti “illuminati”: le rane crocifisse prima e ora la donna crocifissa.
Ieri l’Unità ha messo addirittura in copertina la foto del manifesto della campagna antistupro in occasione della manifestazione di Roma organizzata dalle femministe.
Premesso che trovo orribile qualsiasi violenza sulle donne e che il mondo femminista sembra stranamente silente e disattento quando gli orrori contro le donne vengono perpetrati in un contesto islamico (penso alla recente vicenda di Aisha, tredicenne, che in Somalia è stata rapita e stuprata da tre uomini e poi è stata fatta lapidare dalla “corte islamica”, con l’accusa di adulterio perché chiedeva giustizia, mentre i tre violentatori sono stati lasciati liberi), premesso pure che in questo caso il richiamo al simbolo della crocifissione può anche essere sensato e giusto (se non fosse che la nudità offerta da quel manifesto antistupro in fondo rischia di ricadere nella stessa mercificazione del corpo femminile che si intende condannare), premesso tutto questo, perché la repulsa dell’unico che a quella croce è stato inchiodato davvero?
E’ curioso. Nei giorni scorsi Michele Serra è intervenuto sulla Repubblica, naturalmente a favore di tale manifesto con la donna crocifissa, con questa affermazione di singolare superficialità: “La croce, per quanto dura e crudele sia la sua funzione, segna e nobilita il suo passeggero, sia una rana, un dio, una donna nuda. Mette in fuga solamente vampiri e satanassi, solo i malvagi si turbano quando la vedono”.
A parte quella volgarotta parificazione fra la rana, “un dio” (con la d minuscola come usava nei Paesi dell’est) e “una donna nuda”, Serra mostra di ignorare totalmente che, al contrario, la crocifissione era il peggiore supplizio dei romani proprio perché, alle atroci sofferenze, aggiungeva l’umiliazione, l’esposizione vergognosa del corpo offeso, il dileggio crudele della nudità. Ciò che l’ha nobilitata è stata solo la crocifissione di Gesù, cioè di Dio.
Ma soprattutto, viene da chiedersi, se la croce “mette in fuga solamente vampiri e satanassi”, se “solo i malvagi si turbano quando la vedono”, perché lui stesso – Serra Michele – il 30 ottobre 2003, sulla Repubblica, si univa al coro di coloro che non volevano il crocifisso nelle scuole?
Scriveva: “i simboli religiosi, nei luoghi dello Stato, invischiano lo stesso Stato in una inevitabile e spinosa commistione di ruoli e di significati. Tolte la bandiera e l'immagine del Presidente della Repubblica, che appartengono a tutti i cittadini, ogni altra icona, comprese quelle più affini ai sentimenti di maggioranza, è inevitabilmente di parte, e non può essere la percentuale soverchiante a giustificarne la legittimità.”
Sennonché, per distinguersi da Adel Smith, Serra lanciò una proposta di compromesso: “in ogni nuovo edificio pubblico - scuola, tribunale, ospedale - non devono essere esposti simboli di fede, perché lo Stato è la casa di tutti.
Quanto al già edificato, e già arredato da crocifissi e altro, si condona munificamente, nella profonda e serena convinzione che ogni muro debba rimanere come è stato concepito e osservato dai milioni di italiani che ci sono passati davanti”.
Pure Corrado Augias è intervenuto sulla Repubblica in difesa del manifesto con la donna crocifissa, eppure lo stesso Augias sullo stesso giornale, il 18 giugno 2004, si era pronunciato non solo contro i crocifissi appesi sui muri delle scuole, ma addirittura a favore della fanatica legge francese la quale, in nome dei “principi laici… vieta nelle scuole i simboli ‘ostentatori’ come il velo, la kippah, il crocifisso”.
Così la donna seminuda-crocifissa sui manifesti o sulla copertina di un giornale o la rana crocifissa nel museo e sui giornali sarebbero legittime rappresentazioni, mentre invece portare il crocifisso cristiano al collo sarebbe un attentato alla laicità.
Come si vede si va ben oltre la questione del crocifisso appeso alle pareti.
In questo caso mi sembra che vi sia addirittura la limitazione della libertà personale.
Resta comunque da capire il perché di questa avversione al crocifisso. Il giurista ebreo-americano John Weiler sostiene che in Europa divampa la “cristianofobia” provocata dal “risentimento” che gli eredi delle vecchie ideologie provano verso la Chiesa, che non è scomparsa come loro volevano e prevedevano.
Ma forse questa avversione è pure un tentativo inconscio di “autodifesa” dal fascino formidabile che Gesù esercita su chiunque posi su di lui lo sguardo.
Un giorno, dopo il pronunciamento di un tribunale sulla rimozione di un crocifisso, il maestro Marcello d’Orta, l’autore di “Io speriamo che me la cavo” scrisse un articolo dove ricordava le risposte dei suoi alunni al tema “Che mestiere vorresti fare” da lui assegnato: “qualcuno dei miei bambini rispondeva; il camorrista, il boss, perché solo il camorrista, solo il boss è uomo”.
Il maestro spiegava nell’articolo che le materie scolastiche non lo aiutavano a far riflettere i ragazzi e che trovò un sorprendente aiuto proprio nel Crocifisso: “Fu grazie al costante, quotidiano riferimento a questo simbolo di dolore, ma anche di salvezza e di speranza che più d’uno dei miei ragazzi ebbe salva la vita.
Togliete i crocifissi dalle scuole e avrete fatto ben più che offendere un popolo, lo avrete privato di tante coscienze”.
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