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ELUANA 1
Che cosa vuol dire amare nel caso difficile di Eluana
di Giacomo Samek Lodovici
 

 Noi che siamo tremendamente addolorati per la fine atroce (una morte per fame e per sete) che aspetta Eluana siamo accusati di essere crudeli e sadici, mentre la scelta di farla morire viene da molti considerata un’espressione di amore.
  Non mettiamo in dubbio la buona fede di chi ragiona in questi termini; tuttavia, chiediamoci: che cosa significa amare?
  Ovviamente l’amore ha una molteplicità di espressioni, ma (lo suggerisce già Aristotele) amare qualcuno è un po’ come dirgli «è bene che tu sia, è meraviglioso che tu esista, gioisco perché tu sei». La prima forma di ogni amore consiste in una gioia perché chi amiamo vive, è un rendimento di grazie perché l’amato esiste. Precisiamo: amare non significa volere che l’altro esista come conseguenza del fatto che l’altro ci procura gioia, bensì vuol dire volere e insieme gioire per la sua esistenza. Far morire qualcuno, anche se a richiesta (tra l’altro presunta nel caso di Eluana), significa dire «non è bene che tu sia, non è meraviglioso che tu esista». Se qualcuno dice con anni di anticipo o grida (o sussurra) disperato nel presente: «io sono un peso per te» e/o «non vale la pena il mio vivere in questo stato», il vero amore risponde: «è bene che tu sia, è meraviglioso che tu esista anche se la tua condizione è dolorosa per te e/o gravosa per me». Chiedere di morire significa dire: «la mia esistenza non è (non sarà più) preziosa»; così far morire qualcuno (per esempio tramite l’azione con cui si toglie il sondino dell’alimentazione, oppure tramite l’omissione di chi non lo riattacca) equivale a dire a qualcuno: «è vero, tu non vali la pena, la tua esistenza in certe condizioni non è un bene che soverchi queste condizioni, non è prezioso che tu viva». In effetti, chi si occupa dei malati gravi sa che, quando chiedono di morire, quasi sempre lo fanno perché soffrono e perché si sentono soli. Ora, si noti bene, la sofferenza può essere quasi sempre molto lenita con le cure palliative. E la risposta alla solitudine non è far morire, bensì è l’affetto, è prendere per mano il malato, detergergli il sudore, guardarlo negli occhi anche se non risponde, stargli vicino: le invocazioni della morte esprimono la richiesta di non soffrire e una protesta contro la solitudine. Così, il desiderio di suicidarsi o la richiesta di eutanasia si manifestano, solitamente, quando una diagnosi infausta viene comunicata e molto spesso tramontano se il malato viene assistito e confortato. Le suore straordinarie che accudiscono Eluana hanno scritto: «L’amore e la dedizione per Eluana» è ciò per cui 'affermiamo la nostra disponibilità a continuare a servire – oggi e in futuro – Eluana. Se c’è chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva. Non chiediamo nulla in cambio, se non il silenzio e la libertà di amare e donarci a chi è debole, piccolo e povero'.
  Sono crudeli e sadiche? Come si può mai considerare la loro dedizione a Eluana una forma di accanimento terapeutico? E come può essere amore far morire Eluana di fame di sete? Lasciare che il suo corpo si consumi lentamente a causa della secchezza dei tessuti, della disidratazione delle pareti dello stomaco (che provoca spasmi) e delle vie respiratorie, mentre la pelle si ritira, gli occhi si incavano, la temperatura corporea aumenta per mancanza di sudorazione, il naso sanguina, le labbra e la lingua si spaccano: questo è amore? È vero, sono previste delle misure per attenuare (ma solo in parte) questi effetti: ma ciò cambia la sostanza?

 
Fonte: Avvenire, 18/11/2008