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Ottobre 2007: il Parlamento cancella definitivamente la pena di morte dal sistema giuridico italiano. Luglio 2008: i Giudici della Repubblica pronunciano la prima condanna a morte.
La Corte d’Appello di Milano, sulla scia della pronuncia della Cassazione di alcuni mesi fa, ha statuito: Eluana Englaro può essere uccisa. Ma di quali colpe si è macchiata questa giovane donna che tanti vogliono morta? Di essersi rifiutata di morire spontaneamente dopo l’incidente stradale che la portò al coma e poi ad uno stato vegetativo persistente? Di avere confidato alle amiche e a scuola – lei, piena di vita, giovane, sconvolta dalla visita ad un amico in coma dopo un incidente – che avrebbe preferito morire piuttosto che rimanere attaccato ad un tubo? Di avere un padre che non riesce a sopportare la vista della figlia malata?
Ma – diranno in molti - la pronuncia è giusta: è stata lei a chiedere di morire, il padre agisce come tutore, fa rispettare la sua volontà …
Noi sappiamo che queste argomentazioni, emotivamente persuasive, sono irricevibili dalla ragione umana. Non possiamo tacere: questa sentenza è un altro passo decisivo verso questo “progresso” che, per molti, significa soltanto la possibilità di uccidere le altre persone.
Questa volta la decisione di uccidere non è stata riservata ad una “scelta privata” (come nell’aborto), non discende dal ricorso a tecniche particolari autorizzate dalla legge (come nella fecondazione artificiale), non è stata procurata da un medico dopo che l’interessato aveva gridato a tutti di voler essere ucciso (come nel caso Welby); oggi sono stati i giudici a stabilire che una donna adulta, che non è in stato terminale, non deve più essere nutrita e curata, ma deve essere lasciata morire.
I giudici italiani discriminano espressamente una categoria di malati: quelli incurabili che mancano di “coscienza e percezione del mondo esterno”.
D’ora in poi, verso questi malati, la domanda non sarà più: come curarli e assisterli al meglio? Ma piuttosto: quando e come ucciderli?
Diranno: la legge sul testamento biologico darebbe garanzia sulla effettiva volontà del malato di morire. Ipocrisia evidente: sarà solo il pezzo di carta che costituirà il nulla osta alle decisioni altrui, con altri che si arrogheranno il diritto di interpretare la volontà di chi l’ha firmato – magari niente affatto libero e niente affatto consapevole – e di decidere il se e il quando …
Una sentenza ingiusta, che ha basato la propria legittimità formale su un finto contraddittorio (la curatrice che era stata nominata per contrastare le richieste del padre si è associata all’istanza di morte) e che – esattamente come altre condanne a morte che tanto deprechiamo – prevede modalità attuative “gentili”: modalità che dovranno “garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad esempio anche con umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee a eliminare l'eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell'igiene e del corpo e dell'abbigliamento) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento e in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l'assistenza, almeno dei suoi più stretti familiari”.
Il condannato a morte non deve soffrire troppo.
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