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Il no dell’Irlanda al nuovo progetto di Unione Europea (53,4% contro il 46,6%) ha un eloquente significato, che va considerato in tutti i suoi aspetti.
C’è chi afferma che 4 milioni di irlandesi, meno dell’1 per cento della popolazione del continente, non possono bloccare la volontà di 497 milioni di cittadini europei. La verità è però un’altra, sottolineata dal presidente ceco Vaclav Haus: i politici europei hanno permesso ai cittadini di esprimere la loro opinione in un solo Paese in Europa, e in questo paese sono stati bruscamente contraddetti.
I pianificatori dell’Europa unita, consapevoli del fatto che qualsiasi trattato europeo sarebbe stato rigettato dagli elettori, hanno deciso di evitare di sottoporglielo. Anziché interpellare direttamente l’opinione pubblica, ventisei Stati membri dell’Unione hanno scelto di approvare il Trattato in Parlamento (diciotto Paesi lo hanno già ratificato). L’Irlanda è l’unico Paese ad avere indetto un referendum, perché a ciò era obbligata da una sua recente legge.
Ma il referendum irlandese ha confermato lo iato esistente tra “Europa reale” e “Europa legale”. Ogni qual volta i cittadini europei sono chiamati alle urne per esprimere il loro giudizio sulle istituzioni comunitarie, le rifiutano con decisione. E’ accaduto con i referendum del maggio-giugno 2005 in Francia e in Olanda, e si è ripetuto il 13 giugno in Irlanda. “Gli elettori europei – ha scritto Fausto Carioti su “Libero” (14 giugno 2008) – si dividono in due categorie: quelli che hanno bocciato i trattati europei e quelli ai quali è stata negata la possibilità di bocciarli”.
I risultati di queste consultazioni elettorali rivelano l’esistenza di una forte divaricazione tra il sentimento popolare e il “potere senza volto” dei “piani alti” di Bruxelles. Lucio Caracciolo ricorda il perfido motto di uno dei “padri” dell’Europa, Jean Monnet: “l’essenziale non è sapere dove andare, ma andarci” (Il trionfo dell’euronoia, “La Repubblica”, 14 giugno 2008). Le strade per raggiungere la meta sono tortuose, ma gli “eurocrati” non rinunciano al progetto di dissoluzione degli Stati nazionali avviato dal Trattato di Maastricht del 1992.
La bocciatura irlandese non è però un semplice “incidente di percorso” ma una brutale battuta d’arresto. Il presidente della Commissione Barroso ha ammesso che non esiste un “piano B” per aggirare il no dell’Irlanda, anche perché il Trattato di Lisbona rappresentava già un “piano B”, rispetto alla Costituzione Europea bocciata dai referendum del maggio 2005. Francia e Germania si ripropongono ora come le “locomotive” di un’Europa a più velocità, ma il cammino appare impervio. La data del 1 gennaio 2009, prevista per l’entrata in vigore del Trattato, è irrimediabilmente saltata e non sarà facile approntare nuove soluzioni, almeno a breve termine.
Quanto è accaduto offre un’importante conferma del fatto che niente è irreversibile nella storia, se esiste una ferma volontà di resistenza. In Irlanda, come già era accaduto in Francia e in Olanda, l’intero establishment si è schierato per l’approvazione del Trattato: i due principali partiti, Nuova Democrazia, al governo, e Pasok, opposizione di sinistra; i sindacati e gli industriali; tutti gli organi di informazione. Eppure una attiva minoranza, guidata da vivaci associazioni come la “Irish Society for Christian Civilisation”, è riuscita a dar voce all’opinione pubblica, inceppando il meccanismo, montato dai tecno-burocrati e mutando così il corso della storia europea.
Va aggiunto che la principale ragione per cui il nuovo progetto europeo è stato rifiutato è dovuta ai suoi contenuti palesi, e non ai suoi aspetti criptici e farraginosi. Lo ha visto bene il senatore Marcello Pera che ha sottolineato come il no irlandese al trattato di Lisbona è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici (…) i cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia” (“La Stampa, 14 giugno 2008).
Nel Trattato di Lisbona assume forza giuridica obbligatoria la Carta dei Diritti fondamentali, varata nel dicembre 2000 a Nizza, che costituisce il cuore della nuova costruzione europea. Nella Carta di Nizza, condannata da Giovanni Paolo II pochi giorni dopo la sua promulgazione, non c’è solo il rinnegamento formale delle radici cristiane dell’Europa. Nell’articolo 21, per la prima volta in un documento giuridico internazionale, l’“orientamento sessuale” è riconosciuto come fondamento di non-discriminazione, mentre due altri articoli del nuovo Trattato sul funzionamento dell’UE, il 10 e il 19, ribadiscono lo stesso principio.
Questi articoli traducono in termini giuridici la cosiddetta teoria del gender, che distingue il sesso fisico-biologico dalla tendenza sessuale o “identità di genere”. La sessualità, in questo modo, diventa non un dato di natura, ma una scelta “culturale”, puramente soggettiva. L’art. 9 della Carta dei diritti di Nizza dissocia inoltre il concetto di famiglia da quello di matrimonio tra un uomo e una donna, aprendo la porta alle unioni omosessuali e alle adozioni di bambini da parte delle coppie “gay”.
La Carta conferisce inoltre ai cittadini la possibilità di ricorrere contro le legislazioni nazionali, con il rischio di creare un meccanismo per cui, attraverso i ricorsi dei cittadini e le sentenze della Corte di Giustizia europea a cui essi adiscono, si arrivi a determinare una giurisprudenza comunitaria che esautori le legislazioni nazionali. I singoli possono tutelare i diritti loro garantiti dal Trattato appellandosi alla Corte di Giustizia, le cui sentenze si applicano direttamente all’interno degli Stati membri. La sovranità degli Stati sarebbe progressivamente liquidata a colpi di sentenze dei Tribunali europei.
Se il Trattato di Maastricht, con l’introduzione dell’euro, ha voluto dare all’Europa una costituzione economica, con il Trattato di Lisbona, stiamo passando non ad una costituzione politica, ma ad una costituzione giuridica, fondata sui nuovi diritti postmoderni, diametralmente opposti ai “principi non negoziabili” a cui tanto spesso si è richiamato Benedetto XVI.
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