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Il bilancio a un anno dall’emanazione del “Motu Proprio”.
A un anno di distanza dall’emissione del Motu Proprio di Benedetto XVI il mondo cattolico trae il primo bilancio. Se ne è discusso la scorsa settimana durante il convegno Il Motu Proprio ‘Summorum Pontificorum’ di S.S. Benedetto XVI. Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, tenutosi dal 16 al 18 settembre presso l’istituto “Santa Maria Bambina” in Vaticano. Organizzato dall’associazione “Giovani e tradizione” e patrocinato dalla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”, il convegno ha visto la partecipazione di numerosi sacerdoti, religiosi e laici, concordi nell’opportunità di riscoprire la bellezza e la ricchezza del rito liturgico tridentino di san Pio V, mai abrogato, né dal Concilio Vaticano II, né dalla riforma post-conciliare, e del quale Papa Benedetto XVI, attraverso l’ultimo Motu Proprio, ha voluto facilitare la celebrazione, dando più libertà ai parroci e ai fedeli nella scelta della liturgia e limitando, in tal senso, il potere di veto dei vescovi.
Dagli interventi dei relatori e del pubblico sono emerse in particolare le difficoltà interpretative dei dettami del Motu Proprio, intese in senso restrittivo da molti alti prelati e, al tempo stesso, la consapevolezza che il rinnovo di una tradizione liturgica plurisecolare non sta a significare alcuna restaurazione o mero ritorno al passato, quanto una valorizzazione e un arricchimento della cultura cattolica stessa, oltre che un incentivo per i fedeli ad un raccoglimento maggiore, venendo riportato, anche esteriormente, al centro della celebrazione il miracolo di Gesù fattosi Eucaristia. Le relazioni del convegno si sono alternate a momenti di preghiera, tra i quali, i più toccanti, sono state le numerose Sante Messe celebrate la mattina presto nei vari altari della Basilica di San Pietro.
Nell’introdurre i lavori in qualità di moderatore, padre Vincenzo Nuara OP, ha sottolineato quanto le finalità del Motu Proprio siano dirette «ad una riconciliazione interna alla Chiesa», in quanto «non esiste verità senza tradizione e non esiste tradizione senza unità ecclesiale». In tal senso «l’unità della chiesa nel papa è consustanziale alla fede cattolica». L’intervento è stato quello di monsignor Camille Perl, vicepresidente della Commissione “Ecclesia Dei”, secondo il quale il Motu Proprio risponde senz’altro all’esigenza di rinnovare una tradizione liturgica gloriosa: non va tacciato né di «passatismo», «non è stato voluto dai nostalgici», né intende sminuire il valore della nuova liturgia.
Le difficoltà applicative, secondo quanto detto da monsignor Perl, sono risultate notevoli in tutto il mondo per le più svariate ragioni. In Germania, ad esempio, la conferenza episcopale nazionale ha emesso «una direttiva molto burocratica che rende di difficile applicazione il Motu Proprio». Con più entusiasmo la novità è stata accolta nei Paesi anglosassoni (Regno Unito, Usa, Canada, Australia) e in Francia. Oltralpe le poche chiese ancora gremite la domenica sono quelle dove si celebra con il rito tridentino; tuttavia il problema è costituito «dalla scarsità di sacerdoti, molti dei quali non conoscono il vecchio rito». In Italia si riscontra, parimenti, l’ostracismo di molti vescovi, mentre un ostacolo riscontrabile un po’ ovunque è «il pregiudizio che il vecchio rito sia superato». Monsignor Perl ha inoltre segnalato un certo entusiasmo «tra i sacerdoti più giovani, molti dei quali assai desiderosi di imparare l’antica liturgia ma ostacolati in ciò dai loro vescovi o superiori».
Il cardinale Dario Castrillon Hoyos, presidente della Commissione “Ecclesia Dei”, intervenendo nel corso dei lavori del convegno ha sottolineato da parte sua quanto il Motu Proprio vada nella direzione di indurre i fedeli ad un maggiore rispetto per il Santissimo Sacramento presente. «Se il protagonista della celebrazione non è più la Trinità ma il celebrante – ha affermato il Cardinale – siamo fuori della tradizione cattolica». È importante, ad avviso del porporato, non porre ostacoli alla celebrazione in latino «perché ciò che conta è il mistero di Dio che si fa pane, non la lingua in cui si celebra». Dall’altro lato, il porporato ha preso le distanze dai tradizionalisti più estremi che utilizzano la bandiera della messa tridentina quale strumento “di potere”.
La relazione di Roberto de Mattei, professore di storia del Cristianesimo all’Università Europea di Roma, ha avuto ad oggetto il rapporto intercorrente tra l’evoluzione della liturgia e la secolarizzazione. Quest’ultima va intesa come un lungo «processo storico che ha inizio con l’umanesimo rinascimentale: si è sviluppato con l’illuminismo e ha il suo sbocco nel laicismo e nel secolarismo agnostico e ateo, caratteristico del marxismo e della società postmoderna». Un processo che ha il suo sbocco finale «nell’esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale».
La secolarizzazione si oppone a una concezione del mondo fondata sul primato del sacro. Per questa concessione l’uomo non è solo un animale sociale, come voleva Aristotele, bensì innanzitutto un “homo religiosus”, che esprime la sua relazione con Dio nella liturgia. La liturgia altro non è che «la preghiera pubblica della Chiesa, l’atto di culto non privato, del singolo uomo ma della comunità di battezzati, riuniti attorno al santo sacrificio dell’altare». Secondo de Mattei non esiste «nulla di più antitetico alla secolarizzazione» di tale sacrificio che si esprime al meglio nella «formula consacratoria, composta, come ricorda il Concilio di Trento, in parte dalle stesse parole del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato tramandato pienamente stabilito dai santi Pontefici».
La più alta forma di riverenza nei confronti di questa miracolosa presenza di Dio tra gli uomini è in primo luogo il silenzio, simboleggiante l’ineffabilità e la maestà di Dio. Stando a tali parametri «il rito romano antico non permette equivoci di sorta» ed è quello che meglio esprime il senso della trascendenza divina. Sebbene il suo recente rilancio, ad opera del “Motu Proprio”, non vada visto in contrapposizione con le liturgie più recenti, è indubbio che il rito tridentino «esprime con perfetta chiarezza quell’unica ecclesiologia che può dirsi cattolica e che ogni liturgia deve esprimere». «Quella liturgia gregoriana – ha proseguito de Mattei – ci ricorda attraverso il suo silenzio, le sue genuflessioni, la sua riverenza, l’infinita distanza che separa il cielo dalla terra; ci ricorda che il nostro orizzonte non è quello terreno ma quello celeste; ci ricorda che nulla è possibile senza il sacrificio e che il dono della vita naturale e sovrannaturale è un mistero». Il rito romano antico ha poi segnato tutti i momenti più gloriosi della storia cristiana «sotto le volte grandiose di San Pietro e nelle più umili e remote cappelle agli estremi confini della terra». Per tutte le ragioni fin qui elencate tale rito «costituisce oggi, nelle intenzioni di Benedetto XVI, un’efficace risposta alla sfida della secolarizzazione», ha poi concluso.
Tra i partecipanti al convegno spicca don Nicola Bux, consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, che ha sottolineato in particolare l’importanza della collocazione centrale di tabernacolo e croce per restituire alla celebrazione la sacralità che merita. Osservazioni di carattere pratico sono state fatte da don Joseph Kramer, parroco a SS. Trinità dei Pellegrini, e don Joseph Luzuy dell’Istituto “Cristo Re Sommo Sacerdote”. A completare la tre giorni sono state le relazioni di padre Manfred Hawke della Facoltà Teologica di Lugano, padre Michael Lang dell’Università Europea di Roma, padre Massimiliano Zangheratti, dei Francescani dell’Immacolata, docente allo Studio Teologico “Immacolata Mediatrice”.
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