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ABORTO: FINALMENTE TUTTA LA VERITÀ E NIENT'ALTRO CHE LA VERITÀ
Sulla copertina di questo libro c’è una sedia vuota.
di Mario Palmaro
 

Guardatela. Osservatela in silenzio e pensateci almeno per qualche minuto: ogni volta che un essere umano viene abortito, una sedia rimane vuota. Per quanto ci si possa agitare, strillare, urlare, e dire che non è vero niente, che era solo un grumo di cellule, un’escrescenza, una vita in potenza; per quanto ci si voglia tappare le orecchie, girare la testa dall’altra parte, chiudere gli occhi; per quanto si mettano in atto tutte queste forme di fuga vigliacca dalla realtà, non c’è modo di uscirne: quel posto nel mondo rimarrà per sempre, inesorabilmente vuoto.
E’ quella sedia vuota a inchiodare purtroppo la donna. Anzi, la madre. Perché, anche se ha abortito, lei è stata mamma, sia pure per pochi giorni, o poche settimane, o pochi mesi. Lei sa che c’era un figlio, che anzi c’è un figlio. E che dunque rimarrà, per sempre, mamma. Le amiche, i medici, il conduttore del talk show, la femminista incartapecorita, la ministra progressista le hanno detto e ripetuto mille volte di non darsi troppa pena. Le hanno spiegato che tanto, prima o poi, quando sarà il momento giusto, o quando troverà l’uomo giusto, o quando sarà nella casa giusta, o quando avrà il lavoro giusto; quando, insomma, si verificherà la congiunzione astrale favorevole, ne farà un altro, di figlio. Magari sano e bello, non “malato e quindi infelice” come quello che ha deciso di togliere di mezzo.
Ma la donna lo sa: quel particolare figlio, proprio lui, non tornerà più. La colpa di questa tragedia è – paradossalmente – la grandezza dell’uomo. Che è persona. Non è una macchina, un gioiello, un utensile, un libro: tutte cose interessanti, magari preziose. Ma cose fungibili, cioè sostituibili, rimpiazzabili. L’orologio si rompe? Semplice: ne compri un altro. L’auto è vecchia e perde olio? La cambi. Il figlio è handicappato? Lo abortisci e ne rifai uno sano. Già. Ma, strano a dirsi, con l’essere umano il paradigma consumistico non funziona: la sedia, quella sedia che rappresenta il posto speciale dedicato a quel bambino che si sarebbe chiamato Luca, o Giacomo, o Veronica, o Andrea; quella sedia rimane vuota.
Lo so: in questo mondo impazzito, la donna troverà una quantità industriale di “amici” che le suggeriranno la risposta illuminata. E che le diranno che in questa vita di posto non ce n’è per tutti, e che soprattutto non c’è un posto uguale per tutti; e che parlare è facile, ma bisogna provare di persona che cosa vuol dire far nascere un bambino quando non te lo aspetti, o quando non hai un posto bello, grande, pulito e luminoso dove accoglierlo. Frasi persuasive, piene di apparente buon senso.
Ma bastano cinque minuti di silenzio perché nella coscienza di quella madre riaffiori una consapevolezza che spazza via tutte le scuse pietose: nessuno può decidere se la vita di un altro, un altro che c’è già e che non è soltanto sperato o immaginato; un altro che poi è mio figlio; nessuno può decidere se quella vita sarà brutta e dolorosa al punto che è meglio per te morire. Anzi: che è meglio per me fare tutto quello che serve per farti morire.
E così, ancora una volta, la sedia, la sedia di quel “mio” figlio, rimane vuota. E mi inchioda. Ci inchioda alle nostre responsabilità collettive, politiche, giuridiche.
Perché – lo abbiamo detto – questo vuole essere un libro onesto. Onesto fino al punto di dire come stanno realmente le cose.
E’ un libro nel quale si vuole spiegare razionalmente, ragionevolmente, che cos’è l’aborto volontario. L’aborto è l’uccisione di un essere umano innocente. Questa verità può esser detta in molti modi: si possono cambiare le parole, limare le frasi, esercitarsi nella difficile arte dell’antilingua. E’ una verità che può essere detta con molte intenzioni diverse: per il gusto un po’ feroce di ferire e umiliare la donna che ha abortito; o per il desiderio sincero e amorevole di salvare un innocente da una fine terribile, e una madre da un rimorso oscuro quanto palpabile.
L’uomo è capace di entrambe queste cose, perché l’uomo può essere, come scriveva Fichte, “santo o bandito”.
Ma poi, alla fine, contano i fatti. E il fatto rimane sempre quello, inesorabilmente. Perché non c’è nulla di più ostinato dei fatti: con l’aborto di uccide.
Questo vuole essere un libro onesto, al punto da trarre con rigore tutte le conseguenze logiche che la ragione ci impone: se l’aborto uccide, e uccide un innocente, non può essere giusto che la legge consenta alla donna di praticarlo. Nessuna persona sana di mente potrebbe affermare contemporaneamente che deportare il popolo ebreo in un campo di concentramento è un’orribile violenza; e che però, d’altra parte, le leggi che lo consentono sono buone.
So benissimo che da un po’ di tempo c’è una strana teoria che circola nel dibattito culturale e politico italiano. E l’idea è pressappoco questa: l’aborto è una gran brutta cosa. Addirittura un omicidio, si dice con linguaggio aspro e diretto. Ma, nonostante questo, la donna deve poter scegliere. Deve – se la logica ha ancora un senso – poter uccidere suo figlio.
Insomma: “aborto no, legge 194 sì”. Che sarebbe come dire: “Rubare no. Legalizzazione del furto sì”. Ecco, questo è un libro onesto, nel quale non leggerete nulla del genere. Perché all’uomo è chiesto, anzi è imposto, di trarre con coraggio le conseguenze della verità che riconosce davanti ai suoi occhi. Lo si deve fare anche se questo obbliga a posizioni scomode, di minoranza, o addirittura di minoranza nella minoranza. Anche se, insomma, c’è da pagare un prezzo.
Questo è un libro onesto, in cui non si dirà che le argomentazioni addotte per giustificare l’aborto e la sua legalizzazione sono tutte stupide o prive di fondamento. Ci sono molte ragioni interessanti, perfino convincenti, in base alle quali motivare la soppressione del proprio figlio non ancora nato. Così come ci sono ragioni molto interessanti, e perfino convincenti, per motivare la soppressione di un proprio figlio già nato, o della propria moglie, o del proprio marito, o di una persona che ci odia visceralmente, o di un collega che ci ha fatto del male per una vita.
Quando un uomo agisce, lo fa sotto l’effetto di motivazioni molto articolate, sia emotive che razionali.
Il punto è che, di norma, queste motivazioni non giustificano la commissione di un delitto. Possono aiutarci a capire le ragioni del colpevole, possono muoverci a pietà nei suoi confronti, possono perfino spingerci a invocare clemenza quando arriverà l’ora del verdetto umano. Ma il delitto rimane e – seppure talvolta assai mitigata – la colpa anche.
Dunque, anche nel delitto di aborto valgono questi ragionevoli ed elementari principi: le circostanze non possono essere ignorate; le motivazioni non sono tutte identiche, e ci sarà pure - sul piano della giustizia – una differenza tra la donna che abortisce perché deve andare in ferie, e la donna che abortisce perché ha subito una violenza carnale. Tuttavia, l’aborto dispiega in entrambi i casi il suo effetto feroce: c’è una vittima innocente. E non c’è argomento al mondo che possa rendere l’uccisione dell’innocente un atto lecito.
Questo è un libro onesto, nel quale si dirà anche che, se in uno Stato civile si vuole vietare un comportamento perché consiste nell’uccisione di un innocente, allora si è costretti a stabilire delle sanzioni penali. Lo so: anche fra gli oppositori all’aborto si è diffusa ormai da tempo una posizione molto diversa. Si dice che lo Stato dovrebbe affermare la illiceità dell’aborto, ma nello stesso tempo si dovrebbe evitare qualsiasi sanzione alla donna.
Intendiamoci: questo è un discorso che tiene in debito conto la mentalità corrente, la quale ha ormai accettato l’aborto legale come una cosa normalissima. Ma, pur comprendendo queste cautele, si deve avere il coraggio di dire che il ragionamento non regge: se vuoi vietare una condotta perché ritenuta delittuosa, devi stabilire una sanzione per chi la commette. Potrai poi discutere sull’entità e sulla natura di quella pena; potrai ad esempio escludere il carcere, e ricorrere a strumenti alternativi alla detenzione. Ma senza pena, non c’è tutela giuridica effettiva del bene in questione.
Questo è un libro onesto, che non vuole aggrapparsi a una descrizione della vita umana che sembri uscita da uno spot pubblicitario. Gli appelli zuccherosi contro l’aborto, quelli per intenderci che cercano di negare l’esistenza dei problemi, delle fatiche, dei drammi e delle tragedie di cui è impastata la vita, non ci appartengono. E non li troverete in questo libro. La donna – e la società in genere – non deve essere presa in giro. Ci sono situazioni in cui la gravidanza nasce da un problema, e genera altri problemi. Ci sono figli concepiti che stanno per essere paracadutati in un mare di guai. Ci sono figli concepiti che portano essi stessi un mare di guai. Ci sono figli concepiti che sono essi stessi il primo movente per la commissione del delitto di aborto: una relazione extraconiugale; una madre poco più che ragazzina; una famiglia già numerosa in una casa troppo piccola con uno stipendio solo, ancora più piccolo; una diagnosi impietosa dell’ecografista.
Si possono negare tutte queste realtà? No. Si può affermare che lo Stato, la Chiesa, la Caritas, il volontariato, l’Onu, l’Esercito della salvezza, il Dalai Lama possano organizzare una società così perfetta che queste cose non accadano mai più? Assolutamente no: sarebbe una follia il solo pensarlo. Sarebbe – per i credenti – un’eresia: quella di chi crede che sia dato all’uomo scacciare il male per sempre da questo mondo.
Dunque, realismo: i moventi per abortire ci sono e ci saranno sempre. Possiamo e dobbiamo contrastarli. Ma, alla fine, ci resterà davanti sempre – speriamo meno frequente di oggi - una richiesta, che è l’espressione di una volontà: io questo figlio non lo voglio, o non posso averlo. Fatemi abortire.
E allora è qui che si gioca – in tutta la sua formidabile potenza – la forza del diritto. Che serve proprio qui, in quella regione dell’umano in cui la morale, la coscienza individuale, l’affetto, l’aiuto degli altri non possono fare più nulla. Il diritto è lo strumento con cui la collettività impedisce – con la minaccia e con la forza – la commissione di un delitto. Il diritto ti dice: se lo fai, sarai punito. Se obbedisci al divieto per intima convinzione morale, meglio per te. Ma se anche hai motivi meno nobili, a me basta che tu, ad esempio, non uccida tua suocera, anche se ne avresti la voglia. E perfino qualche ragione. Vedremo come con alcuni piccoli esempi si possa comprendere che tutta la vita di relazione è puntellata da questo strumento lucido e insieme ruvido della norma giuridica.
Questo, l’avete ormai capito, è un libro onesto. Nel quale non leggerete che “se la donna è libera non abortisce”. Perché questa è una menzogna. Ognuno di noi – tu che leggi e io che scrivo – sa perfettamente di quanto male sia capace ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. E non per causa di una società ingiusta, di un’infanzia travagliata, di un sistema fiscale sbagliato, di una città costruita da architetti disumani. Sì, viviamo magari circondati da queste cose, e ne siamo poco o tanto condizionati.
Ma il male che sappiamo fare ce lo fabbrichiamo in casa nostra, nel nostro cuore. Liberamente. E anche la donna incinta è questa realtà, vive questa inclinazione, soffre del contrasto assurdo eppure umanissimo tra il vedere il bene ed essere tentata di fare il male. Questa è la condizione della donna che sta per andare ad abortire, ed è per questa sua identità con la nostra condizione di uomini – di peccatori direbbe un cattolico – che non riesco a essere scandalizzato dalla donna che vuole abortire. Sta per uccidere, sta per sbagliare. Come un marito che scoprendo il tradimento della moglie la stia per ammazzare. Come un banchiere che, potendo stornare soldi non suoi dalla cassa, stia per metterseli in tasca.
Di queste persone diremmo che “se fossero libere non ucciderebbero, non ruberebbero”? Per favore, non scherziamo. La donna che vuole abortire è – fino a prova contraria – libera. Consapevoli che ogni caso è una storia a sé, e che l’aborto è un romanzo che oscilla dalla ragazza albanese incolpevole, costretta ad abortire dai suoi protettori; alla manager rampante che si sbarazza del figlio per fare carriera; passando per altre mille sfumature e situazioni.
Ma alla donna – se non vogliamo ridurla a uno stato animalesco, se non vogliamo mortificare la sua dignità di persona – va riconosciuta la condizione di soggetto libero anche qui, quando per abortire esercita quel libero arbitrio, che è il presupposto della nostra responsabilità.
Anche la donna è pienamente umana quando sta per compiere quel gesto disumano. E’ la sua umanità che le rende possibile anche il compimento volontario di quel gesto. Ecco perché lei, poveretta, non mi scandalizza.
Ciò che invece mi scandalizza è che una società, le sue leggi, i suoi intellettuali, e perfino certi suoi teologi e certi suoi pastori di anime, dicano a questa donna: “Devi poter scegliere di fare quello che vuoi fare. Intendiamoci, noi ti diamo i mezzi per non farlo: soldi, pannolini, coperte, vestitini, alloggi, incentivi, acqua minerale, viaggi premio, palloncini colorati e passeggini usati. E quando ti avremo dato tutto questo, siamo sicuri che diventerai libera, noi ti renderemo libera. E tu non abortirai più”.
No: in questo libro non troverete scritta questa idea, perché questo non è un libro di favole. Lo scandalo non è che una donna possa essere tentata di abortire. Perché ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, un uomo è tentato di uccidere, rubare, tradire, violentare, sfruttare, mentire, uccidersi. Lo scandalo è che una società e uno stato possano dire a quella donna: “Ecco, accomodati, ti ho preparato un luogo pulito e sicuro dove tu possa farlo gratuitamente”.
Lo scandalo è anche che coloro che sanno che cosa sia l’aborto, che conoscono la verità, siano solo capaci di dire: “noi ti offriamo pannolini, ma poi scegli tu, devi essere libera”.
Sì, questo è un libro onesto, in cui non troverete mescolate in una poltiglia appiccicosa le ragioni della ragione e le ragioni della fede. Perché non c’è nulla di più deleterio che confondere le idee della gente su questo punto. Qui si cercherà di mostrare come l’aborto sia un fatto antigiuridico, e non semplicemente un fatto immorale, o un peccato. Nessuno direbbe che l’omicidio è un male “dal punto di vista cattolico”. Perché ogni uomo rivendica, giustamente, la capacità di poter formulare un giudizio severo sull’uccisione di un passante, di un poliziotto, di un tabaccaio. Un giudizio che chiede non vendetta, ma giustizia.
Ecco: per l’aborto vale un ragionamento analogo.
Ma in questo libro, alla fine, troverete anche le ragioni della fede, e chi vorrà potrà leggerle e confrontarsi con esse. Sono ragioni bellissime. E sono anche le uniche ragioni che permettono di riempire quella sedia tragicamente vuota.
Nella luce della fede cattolica, abbiamo la certezza che la nostra vita non finisce qui, che non si precipita nel nulla quando verrà il giorno inesorabile della nostra morte. Così, anche le mamme che hanno detto di no al loro figlio invisibile, possono scoprire che l’ultima parola per loro non è quella della disperazione. E che c’è un Dio, e un Dio misericordioso, anche per le donne che hanno abortito.
Incontrarlo non è difficile: l’importante è riconoscere che uccidere un innocente non è lecito né all’uomo e né alla donna. Mai. Allora le madri scopriranno che, nonostante tutto, quel figlio respinto le attende su quella sedia.
Che non è più vuota.

 
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