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Premio per la miglior regia a Cannes, quattro nomination agli Oscar del prossimo 24 febbraio. È da ieri nelle sale italiane il bellissimo e commovente Lo scafandro e la farfalla del regista americano Julian Schnabel, che racconta la vicenda drammaticamente reale del francese Jean-Dominique Bauby. Colpito da ictus all’età di 42 anni, Bauby (autore di successo e redattore capo della prestigiosa rivista francese Elle) rimase poi vittima di una rara sindrome che lo paralizzò dalla testa ai piedi rinchiudendolo nel suo stesso corpo, come in uno scafandro. L’uomo dettò la sua autobiografia, da cui è tratto il film di Schnabel, in poco più di un anno utilizzando solo il battito di una palpebra, l’unica parte del corpo che era in grado di governare, perché per ogni altra funzione dipendeva dalle macchine. Un calvario di 16 mesi (Bauby si spense il 9 marzo 1997, dieci giorni dopo la pubblicazione del volume), ma anche un incredibile inno alla vita, vista e vissuta attraverso quell’occhio capace di esprimere tutta la profonda essenza di un uomo così umiliato e imprigionato, ma libero come una farfalla, nei battiti di quelle palpebre.
È possibile che l’essere umano travolto da un’improvvisa, terribile tragedia scopra la sua vera natura e il senso più profondo della vita? Dobbiamo ammalarci ed esplorare i meandri dell’inferno perché ci appaia un angelo pronto ad aiutarci? Parte da queste domande Schnabel per dare vita a un autentico capolavoro intriso di straordinaria umanità, poesia, persino ironia, com’era nelle corde dello sfortunato Bauby, interpretato dal bravo Mathieu Amalric. Ma c’è anche profonda disperazione. Come quando, appena appreso a comunicare con il movimento delle palpebre, le sua prime parole sono: «Voglio morire». «Parole oscene e irrispettose» secondo la sua fisioterapista (Emmanuelle Seigner) che a quell’uomo sta dedicando tutta se stessa. E Bauby scoprirà come la vita valga la pena di essere vissuta comunque.
Un tema, quello dell’intangibilità e sacralità della vita, spesso tabù sul grande schermo o affrontato piuttosto per ribadire il diritto all’eutanasia (come nel caso di Mare dentro di Alejandro Amenabar, Oscar nel 2005), è trattato da Schnabel in maniera sorprendente. Il regista ci ricorda infatti che anche un’esistenza apparentemente così miserabile può ancora riservare gioia e serenità, emozioni e sogni da cercare tra memorie e immaginazione. Intrappolato, con il protagonista, tra membra inerti per quasi un’ora, lo spettatore assiste quasi con l’occhio stesso di Bauby (e di Schabel) alle vicende che si dipanano sullo schermo con quello stesso sguardo, ascoltando la voce di un uomo che nei suoi monologhi interiori si chiede se quella si possa chiamare vita, che rimpiange cose mai dette, gesti mai compiuti, amore mai dato, la gioia perduta senza però mai perdere, persino, un innato senso dell’umorismo. Un meraviglioso e misterioso inno alla vita, dono assoluto
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