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Una struggente vicenda familiare per rievocare una pagina di storia controversa e dimenticata, poco prima che le ferite della Seconda Guerra Mondiale comincino a insanguinare l’Europa intera. A raccontarla è il regista polacco Andrzej Wajda che con Katyn, ieri in concorso al Festival di Berlino e in corsa agli Oscar come migliore pellicola straniera, porta per la prima volta all’attenzione dell’Occidente l’orrore di una strage rimossa per oltre mezzo secolo. Siamo in Polonia nel 1939 e il film comincia con la scena di due folle in fuga lungo la medesima strada percorsa però in senso inverso. Una fugge dall’oppressione della Wermacht, l’altra dall’Armata Russa. È il 17 settembre e con il patto segreto Ribbentrop-Molotov la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin si sono appena spartite il territorio polacco cancellandolo di fatto dalle carte geografiche. In seguito a quella doppia invasione 22mila ufficiali polacchi furono arrestati, deportati nei campi di prigionia sovietici, uccisi con un colpo alla nuca nella foresta di Katyn nei pressi della città di Smolensk e sepolti in fosse comuni.
Intanto mogli e figli attendevano invano il ritorno a casa dei loro cari, dei quali non avevano più notizia. Mosca rigettò la responsabilità del massacro sull’esercito nazista, ma in realtà, come si è scoperto solo nel 1990, quando Gorbaciov desecretò i documenti del Kgb, fu la polizia segreta di Stalin a ordinare la “pulizia” degli ufficiali, rei solo di non avere più un nemico da combattere. Sull’eccidio calò poi il silenzio dell’Occidente per il quale nel frattempo Stalin era diventato un alleato prezioso contro la Germania.
Erano anni che l’ottantunenne Wajda, figlio di uno degli ufficiali uccisi a Katyn, sognava di realizzare questo progetto, doloroso e personalissimo. Ma durante il comunismo l’argomento era tabù, naturalmente. Poi sono subentrate difficoltà artistiche. «Come mettere in scena una tale mole di documentazione improvvisamente disponibile? Chi sono gli eroi di questo film e a che pubblico si rivolge? Sono queste le domande che mi sono fatto per anni – ha spiegato il regista – prima di cimentarmi in questa impresa che mi fa particolarmente piacere presentare qui a Berlino. Una cosa però mi era chiara sin dall’inizio: quello che racconto è un avvenimento troppo tragico per essere manipolato politicamente. Il film non è un atto d’accusa contro nessuno, ma la storia di un fatto umanamente rilevante, un dolore individuale e collettivo al tempo stesso».
Basato sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, il film può contare anche sui diari delle tante donne che aspettavano padri, figli e mariti dal fronte. «Mia madre – racconta il regista – ha atteso per tutta la sua vita il ritorno di mio padre Jacub solo perché il suo nome era scritto in maniera errata nella lista dei morti. E come lei tante donne non si sono mai rassegnate ». Forte di un grande successo in patria, il film si prepara a uscire anche in Russia e nel resto del mondo, e a chi gli chiede se tornerà su un argomento così scottante nel suo prossimo film, Wajda risponde sorprendendo la platea: «Sono troppo vecchio ormai, ho voglia di fare finalmente un film che parli dell’oggi».
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