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Il dibattito sull’aborto ha subito in questi anni una singolare evoluzione. Da tempo un po’ di tempo la discussione si sta polarizzando fra due posizioni di questo tenore:
a. da una parte, gli antichi sostenitori della “sacralità” della legge 194 e del diritto della donna a fare ciò che vuole del suo corpo (e di ciò che in esso è contenuto, foss’anche un figlio);
b. dall’altro lato, coloro che vogliono provare a criticare questo presunto principio giuridico e culturale, ma senza però mettere in discussione, anche solo lontanamente, il fatto che l’aborto debba essere legalizzato in un Paese civile.
Ora, non sfuggirà ai lettori più attenti che non è questo, e non lo era soprattutto negli Anni Settanta, il vero fronte della discussione. Che cosa manca? Manca una voce che sia disposta a ripetere – al prezzo dell’incomprensione e perfino del dileggio pubblico – che l’aborto è la soppressione di un essere umano innocente, e che quindi in uno stato civile la legge dovrebbe considerare illecita questa condotta, sanzionandola nella maniera insieme più seria e più umana.
Come si vede, questa posizione si contrappone frontalmente alla legge vigente in Italia, che è intrinsecamente iniqua e non soltanto “imperfetta e male applicata”. Ma questa posizione conserva il pregio della chiarezza e della coerenza logica. Non è infatti possibile dichiararsi fautori del diritto alla vita del nascituro, se contemporaneamente si ritiene accettabile che egli possa essere soppresso a certe condizioni e in certi casi, come quando ad esempio è ammalato o semplicemente indesiderato.
Questa lettura del dibattito attuale sull’aborto è purtroppo confermata da dichiarazioni come queste: “Sentiamo la necessità di creare le condizioni nella società per ricorrere all’aborto solo come ultima istanza, che da eccezione sta diventando la regola per molte donne. Una serie di dati raccolti negli ultimi anni dimostrano come la legge 194 non sia sbagliata, ma in molti casi solo disattesa o valutata in modo banale da alcuni medici.”
Ora, una frase del genere potrebbe essere giudicata interessante sulla bocca di un leader storico del fronte abortista, oppure nel discorso di una antica femminista, oggi macerata dal dubbio. Ma è molto grave se, al contrario, questo modo di vedere le cose diventa – come sta diventando – il punto di vista di persone che si dovrebbero battere contro la legalizzazione dell’aborto. Dichiarare che la legge 194 “non è sbagliata” è purtroppo il sintomo di uno sbandamento grave che mortifica la discussione e rende ancora più remota la possibilità di una pur piccola revisione in senso restrittivo delle norme vigenti.
Intendiamoci: qui nessuno è così sprovveduto da non sapere che oggi come oggi non sussistono nel Paese – nelle piazze e nelle aule parlamentari – i numeri per un ribaltamento della 194. Ma questo sano realismo politico non può mortificare e addirittura stravolgere l’identità dei movimenti pro life, che hanno nel loro dna la proclamazione della inaccettabilità, non solo morale ma anche giuridica, di ogni aborto procurato.
Ma torniamo a osservare meglio le due visioni che oggi si fronteggiano nella discussione sull’aborto:
a. da una parte, troviamo coloro che da sempre sono i fautori della legalizzazione dell’aborto, che ovviamente difendono la 194 come hanno fatto in tutti questi anni. Gli argomenti sono i soliti: garantire l’autodeterminazione della donna; combattere l’aborto clandestino; socializzare l’aborto; aiutare la donna; far diminuire gli aborti. La legge viene definita intoccabile e necessaria.
b. dall’altra, ecco coloro che a suo tempo si opposero alla legalizzazione, ma che – molto meno ovviamente - oggi sostengono la necessità di applicare la legge 194 integralmente. La tesi è che nella 194 vi siano aspetti positivi mai attuati. La legge non è messa in discussione, ma al massimo si sostiene le “serva fare un tagliando”: come si trattasse di una buona automobile, solo un po’ vecchiotta, che richiede una certa manutenzione per riprendere sicura il suo cammino. In qualche caso, però, ci si spinge a definire la legge 194 “una buona legge, una fra le migliori al mondo nel suo genere”.
Il risultato di questa situazione è paradossale: sia gli abortisti che gli antiabortisti sembrano convergere sulla medesima posizione pratica. E cioè: la legge 194 è un elemento indiscutibile del paesaggio, e non vale nemmeno la pena di metterla in discussione. Così, nel dibattito viene completamente a mancare qualsiasi voce che denunci la legge in vigore come “intrinsecamente ingiusta”, e che proclami la necessità di battersi, per quanto possibile, per la sua abrogazione o almeno per la sua reformatio in mejus. E’ più che ragionevole chiedersi quali siano le cause di questa incredibile deriva del dibattito italiano sull’aborto legale.
Una delle cause di questa situazione è certamente rappresentata dal grave stato confusionale oggi diffuso intorno al concetto di abortismo. Si lascia intendere che l’abortista sia una persona che promuove l’aborto, lo giudica positivamente, ne auspica la diffusione, o lo osserva quanto meno con indifferenza. Si tratta di una raffigurazione distorta e caricaturale: tutto il fronte abortista degli anni Settanta, ad eccezione dei Radicali e di pochi altri, sosteneva questa tesi: “noi siamo contro l’aborto, che è una sconfitta della donna e della società. Solo che dobbiamo regolamentarlo per sconfiggere l’aborto clandestino”. L’abortismo è essenzialmente questa cosa: affermare che la donna possa liberamente decidere – sotto il mantello della legge statale – se abortire o non abortire. Qualunque sia l’ampiezza di questa facoltà – dai futili motivi, al caso di pericolo per la salute della donna – siamo pur sempre nell’ambito del pensiero abortista. Cioè: di una gravissima ingiustizia non solo morale ma innanzitutto giuridica. Dire – come alcuni fanno – che l’aborto è una brutta cosa, ma che bisogna poi lascir decidere alla donna il da farsi – significa essere irrimediabilmente su posizioni abortiste. Negli Stati Uniti non a caso gli abortisti si chiamano “pro choice”, in contrapposizione ai “pro-life”, che sono intrinsecamente contro la libera scelta. Di uccidere.
In questo clima di totale confusione prendono piede alcune tesi compromissorie che, sostenute con le migliori intenzioni, rendono ancora più fitta la nebbia nella testa di molti cattolici e pro-life. L’idea è quella di contrastare l’aborto nei fatti, senza contrastare alla radice il principio abortista. Ecco alcuni esempi:
a. Garantire alla donna la libertà effettiva di tenersi il figlio. L’aborto è sì una questione da affidare alla scelta della donna, ma la società non deve lasciare sola la donna stessa: deve offrirle tutto il supporto economico e psicologico necessario per far sì che, se ella lo desidera, si possa tenere il figlio. Una sorta di “abortismo gentile”.
b. Preferenza per la vita. L’aborto è sì una questione da affidare alla scelta della donna, ma lo Stato deve promuovere nelle sue strutture (e con l’aiuto del volontariato) la preferibilità della nascita all’aborto. E’ un notevole passo avanti rispetto alla legge 194 – che non dichiara in alcuna parte questa preferenza – ma è pur sempre una prospettiva abortista: la vita di un innocente è arbitrariamente nelle mani di un altro.
c. Rinuncia alla sanzionabilità dell’aborto. Occorre contrastare l’aborto, ma non si può più proibirlo né tanto meno prevedere delle sanzioni. Qui è comprensibile il desiderio di evitare alla donna il carcere, che infatti può essere sostituito con pene alternative o anche meramente simboliche. Ma togliere ogni sanzione significa eliminare la fattispecie aborto dal diritto penale: ed è esattamente ciò che ha fatto l’abortismo negli anni Settanta.
Questo clima genera effetti perversi, che proviamo a riassumere schematicamente:
a. Una spaventosa confusione dottrinale; a molti non è più chiaro quale sia “la linea del Piave” che consenta di distinguere una legge giusta da una ingiusta in materia di aborto. Esistono solo “leggi migliori” o “peggiori”, secondo un frasario significativamente proporzionalista e cinicamente pragmatico.
b. acquiescenza alle leggi esistenti; tutto ciò che è ormai legge dello Stato, e che gode di un consenso diffuso nella società, deve essere accettato così com’è. Anzi: bisogna evitare di denunciare la sua ingiustizia per ragioni “strategiche”. Di più: bisogna cambiare il nostro sguardo, modificando il giudizio originario, e vedere in ciò che un tempo chiamavamo iniquo addirittura i segni del buono e del giusto. Una posizione che mette insieme questa sorta di “indulto etico” per ciò che ormai è legge dello Stato (divorzio, contraccezione, aborto chirurgico, fecondazione artificiale omologa) a una notevole combattività contro ciò che ancora non è diventato legge e prassi civile: aborto chimico, testamento biologico, eutanasia, sperimentazione sugli embrioni, fecondazione artificiale eterologa, legalizzazione delle coppie di fatto.
c. arruolamento di personalità abortiste all’interno del fronte pro life: questa duttilità sui principi permette di imbarcare nell’equipaggio anche quegli intellettuali che sono e rimangono abortisti, o divorzisti, ma che hanno l’indubbio merito di vivere un certo travaglio personale. E che volentieri si alleano per combattere contro le nuove minacce non ancora legalizzate. Intellettuali che dicono: l’aborto legale ci vuole, non si può metterlo in discussione; ma l’aborto con la RU486 mi ripugna, non lo voglio. A questi intellettuali il mondo pro life sta in alcuni casi offrendo posizioni di rilievo, ruoli di editorialisti stabili, compiti di speaker in manifestazioni pubbliche. Risultato: molti nel mondo pro life non sono più nemmeno in grado – pur in perfetta buona fede – di riconoscere in che cosa consista un pensiero di stampo abortista.
d. peggioramento nell’atteggiamento della classe politica: l’uomo politico si alimenta inevitabilmente di consenso, è il prodotto della sensibilità comune in una certa società; se il dibattito culturale sull’aborto non contempla più una critica frontale alla legge 194, è poi assurdo pretendere che in sede politica qualcuno superi “a destra” le istanze della cosiddetta società civile.
e. spostamento del “focus” del dibattito; di fronte al tentativo di legalizzare la pillola RU486 non si dirà più, innanzitutto, che essa è omicida perché uccide un figlio; ma che essa non va autorizzata “perché è pericolosa per la donna”. Affermazione che contiene una verità e che va certamente diffusa; ma affermazione che, da sola, si colloca pienamente sul crinale dell’abortismo. Allo stesso modo, l’enfasi nelle battaglie sui diritti dell’embrione (ad esempio contro il suo uso nella ricerca scientifica) si prestano a evitare di parlare della legge sull’aborto e della sua iniquità.
f. messa in fuori gioco di chi contesta apertamente le leggi abortiste; coloro che restano fedeli alla più autentica tradizione pro life, proclamando la verità tutta intera su divorzio, aborto, contraccezione, vengono marginalizzati a accusati di essere “fuori dalla realtà”.
Non ci si rende conto che l’esito di questo “finto” dibattito – abortisti e antiaboristi che “difendono” la legge 194 - nella migliore delle ipotesi porta solo al consolidarsi della situazione e al raggiungimento di un punto di equilibrio perfetto dell’abortismo: da un lato, l’accettazione nel sentire comune del diritto di aborto per legge; dall’altro lato, il contenimento del numero degli aborti (e magari perfino la loro riduzione) grazie al lavoro del volontariato cattolico, che si fa carico delle difficoltà delle donne incinte in ristrettezze economiche e sociali. E’ la quadratura del cerchio abortista: rendere fisiologico l’aborto legale, in una nuova, inedita, alleanza con il solidarismo cattolico.
Ricordo che una ventina d’anni fa – doveva essere proprio il 1988 – durante un talk show televisivo un uomo politico cattolico (che oggi è ancora sulla cresta dell’onda) si sentì rivolgere dal conduttore – si trattava di Gianfranco Funari – questa precisa domanda: “Onorevole, ma lei è ancora contrario alla legge sul divorzio del 1970?” E il politico rispose: “Credo che quella legge ormai sia stata assorbita bene dal popolo italiano”. Quella risposta mi parve rivelatrice. C’è un tragico processo che le leggi ingiuste innescano nella società e nella testa della gente, cattolici inclusi: digerire, assimilare, assorbire poco alla volta l’ingiustizia, in un primo tempo dicendo che sì, è una cosa sbagliata, ma che ormai non c’è più la possibilità di eliminarla; dopo qualche anno, il giudizio politico - “non abbiamo la forza per eliminare quella legge” – si trasforma in un giudizio morale e filosofico-giuridico: “quella legge tutto sommato non è poi così cattiva, anzi è buona”. Un atteggiamento che ricorda quella volpe che, nella celebre favola di Esopo, non riuscendo a raggiungere l’uva perché troppo in alto, se ne va dicendo: “non era ancora matura”. E’ accaduto con il divorzio. E’ già avvenuto con la fecondazione artificiale omologa (che viene ormai praticata in alcuni ospedali cattolici). Ora tocca all’aborto legalizzato. Ma non è ancora detta l’ultima parola: la verità, per quanto sostenuta da un piccolo numero di persone, non muore.
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