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Riportiamo un nuovo intervento critico del padre Serafino Lanzetta dei Francescani dell’Immacolata, parroco della Chiesa di Ognissanti a Firenze, a proposito delle affermazioni del prof. Franco Cardini sulla costruzione di una moschea a Firenze. Un precedente intervento è stato pubblicato su CR n. 1164 del 30 ottobre 2010.
Da quando la Comunità islamica fiorentina ha presentato al Comune di Firenze un progetto per costruire una moschea in città, si è acceso un dibattito sull’opportunità o meno di un tempio islamico in una città così poliedrica come Firenze. Il sindaco è assolutamente favorevole ad una moschea, ed anche lo storico Franco Cardini, che in un articolo pubblicato su “Toscana Oggi” (26 settembre 2010, p. 18), offre tre ragioni per dire di sì a questo progetto. È proprio su queste ragioni offerte da Cardini che abbiamo qualcosa da dire ai tanti, che in nome del dialogo e della tolleranza religiosa, dimenticano però ciò che è essenziale nel tanto invocato dialogo con l’Islam.
La prima ragione di Cardini è «l’equità»: se tutti hanno diritto a professare il proprio credo religioso a Firenze, non si vede perché solo i musulmani dovrebbero essere discriminati. Il fattore terrorismo non giustifica questa prevenzione, giustamente, perché non tutti i musulmani sono terroristi, benché quelli che lo sono, lo sono in ragione del Corano e non di un’idea di destra o di sinistra. Nelle altre due ragioni, in verità, si articola più chiaramente il pensiero di Cardini. La seconda ragione è «la fede». Lo “scontro di civiltà” è una messa in scena, ma la vera antitesi è tra chi ha una religione e chi non ce l’ha. In modo però veramente sorprendente leggiamo queste parole: «Lasciateci dunque esultare ogni volta che si apra un nuovo tempio nel quale si adora e si presenta la parola di Dio: sinagoga, chiesa e moschea che sia». Da leggersi in sinossi con quanto detto in precedenza: «Se cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, induisti, buddhisti, liberi pensatori e atei hanno diritto a seguire liberamente la loro religione e a disporre di luoghi di culto...».
Dicevamo in modo sorprendente (lasciando da parte il discorso interreligioso con le fedi non monoteiste), perché un tal modo di argomentare esprime un chiaro relativismo religioso: la Parola di Dio è la stessa, o che venga dalla Bibbia o dal Corano. Dunque, che cos’è la Parola di Dio? Se tutto è Rivelazione di Dio (una Parola suggellata da signa et verba) cosa sarà la Rivelazione, cosa è la verità? Qui si nasconde l’equivoco molto spesso ricorrente: per il fatto che il Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islam credono in un unico Dio, sono tre religioni uguali, hanno perciò pari valore salvifico. Questo argomento sarebbe valido, però, solo se si concepisse la Trinità delle Persone come “un’aggiunta cristiana” all’unità di Dio. Dio trino sarebbe perciò un modo di essere di Dio, una manifestazione dell’essere Padre, Figlio e Spirito Santo dell’unica natura. Così si incorre in un’antica eresia detta “modalismo” o “monarchismo”, risalente a Sabellio (III sec.), che relega la Trinità delle Persone a mera manifestazione in ragione della funzione salvifica di Dio. In realtà, Dio è trino perché uno e uno perché trino. L’unica sostanza di Dio è trina in un mistero accessibile solo alla fede. In parole povere, non c’è Dio senza il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che sono l’unico Signore Onnipotente. Pertanto, non è la stessa cosa se la Parola di Dio viene dalla Bibbia o dal Corano. L’Antico Testamento prepara la Rivelazione piena e definitiva del Dio Unitrino, che si compie nel N.T. Perciò solo la Rivelazione giudaico-cristiana è quella vera (su questo certo si può argomentare in modo razionale). Un cattolico si gloria di ascoltare solo quella vera.
La terza ragione è «la fedeltà alla nostra tradizione identitaria». Con l’amaro in bocca leggiamo delle parole sprezzanti. Scrive Cardini: «Qui entra il principio della reciprocità, la trappola più infame e grossolana dei nostri giorni». Questa infamia deriverebbe dal fatto che siamo legati ancora ad una visione rigida che concederebbe una moschea in Italia solo se l’Islam concedesse una chiesa in Arabia Saudita. Fermo restando che i fiorentini che dicono di no alla moschea non si appellano a questa reciprocità (dato anche il grande indifferentismo religioso che regna), sembra che detto principio sia pensato però in modo surrettizio, tale da forzarne la scomparsa dall’immaginario apologetico.
Così viene detto: «...ci si appella al sacrosanto principio giuridico della reciprocità: dimenticando tuttavia che tale principio vale solo fra soggetti rigorosamente omogenei». In realtà, più che di reciprocità bisognerebbe parlare di libertà religiosa, che in ultima analisi si radica nella libertà di coscienza: ogni uomo deve essere rispettato nella professione della sua fede, riconosciuta vera dalla sua coscienza, che mai può essere violentata con una costrizione esterna a rinnegarla o ad abbracciarne una diversa. La religione deve essere professata nella libertà.
Questo principio (diciamolo pure della reciprocità) non vale solo tra omogenei (politici? religiosi?) ma vale per ogni uomo. È un diritto naturale radicato nel cuore di ogni essere umano. Precede la religione e allo stesso tempo la radica nel rispetto dell’altro in quanto uomo. Se si parla di «soggetti rigorosamente omogenei», facilmente il diritto scade in una visione positivista e il soggetto umano diventa un mezzo per il fine, che ormai è divenuto la legge. Proprio come accade nell’Islam, che non distinguendo tra natura umana e fede, tra libertà e religiosità, tra fede e ragione, omogeneizza gli uomini, fino ad imporre il Corano negando la libertà religiosa. Qui però dobbiamo aggiungere ancora qualche elemento, per chiarire questo principio della libertà religiosa, che spesso e in nome del Vaticano II, ha dato origine a non pochi fraintendimenti, quando non a veri sincretismi. Dal fatto che ogni uomo ha il diritto di professare la sua fede, non segue necessariamente che ogni uomo ha il dovere di riconoscere come vera ogni religione.
Bisogna coniugare in modo preciso verità e libertà. Se devo rispettare sempre la libertà altrui, non posso però esimermi dal dire la verità e di riconoscerla come tale. Forte delle parole della Prima Lettera di Pietro 3,15, il cattolico è chiamato a dare ragione della sua speranza in Cristo, e perciò a dire a tutti la verità nella carità, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni a cui porta una religione che rifiuta Cristo, che rifiuta la verità. Nella carità anche ai musulmani, nel rispetto della loro libertà, facendo uso della ragione, annuncio la verità del Vangelo. La libertà, in definitiva, non è un assoluto e così la libertà di coscienza e di religione. Ha un limite: la verità, Dio, che è poi ciò che dà eternità alla libertà. La libertà è piena solo nella verità, quando abbraccio la vera fede, il vero Dio.
Il dialogo con l’Islam, auspicabile e nobile, non può però principiare dal permettere la costruzione di una moschea. Deve invece iniziare da valori condivisibili a livello naturale (che è ciò che veramente ci unisce, mentre le fedi ci separano), dai diritti naturali dell’uomo, dalla libertà religiosa, dalla pari dignità tra uomo e donna, dalla necessità di distinguere la sfera religiosa da quella politica, per non rischiare di scadere facilmente in un fondamentalismo politico ammantato di religiosità. Partire invece dalla moschea è come iniziare la costruzione di una casa dal tetto anziché dalle fondamenta. È questo che il Santo Padre auspicava nel suo discorso di Ratisbona: un sano illuminismo che aiutasse l’Islam a disfarsi di tante congetture troppo umane – Dio non diventa più grande se lo spingiamo in una dimensione impenetrabile e in un puro volontarismo –, per mettere al centro il vero culto di Dio che è Logos ed Amore e dare spazio ad un’immagine vera dell’uomo. Crediamo, infine, che una riflessione positiva che spinga al dialogo, non debba prescindere dal significato che una moschea riveste per la fede islamica. Un elemento architettonico tipico può aiutarci a riflettere: il mihrâb, una nicchia nella parete di fondo che indica la direzione della Mecca, la cosiddetta qiblah, verso cui pregano i musulmani.
All’inizio i musulmani pregavano verso Gerusalemme. Nel 623 Maometto ebbe una rivelazione, secondo la quale era necessario rivolgersi verso la Moschea Sacra per eccellenza, quella della Mecca: «Ovunque siate, volgetevi i vostri visi» (Corano 2a, 144). Anche il Cristianesimo sin dall’inizio ha guardato versus orientem, luogo donde nasce la salvezza, il Cristo. Si badi però: mentre per il Cristianesimo l’oriente non è meramente un punto geografico ma il luogo teologico della salvezza, che ben presto è diventato il Crocifisso, per l’Islam l’oriente è la Mecca e precisamente la Moschea Sacra, prima moschea dell’Islam. Mentre il cristiano adora Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23), senza legami ad alcun tempio in particolare, il musulmano si rivolge verso un luogo geografico, ed è legato al luogo geografico in ragione dell’identità coranica originaria tra religione e politica, tra religione e territorio.
L’Islam non mira “all’evangelizzazione” per convertire ad Allah gli uomini infedeli, ma a conquistarli conquistando le terre in cui vivono. La religione islamica avanza nella misura in cui conquista un territorio: la storia in questo è magistra. I musulmani che pregherebbero nella moschea di Firenze, come in tutte le moschee, guarderebbero comunque al loro luogo originario, per adorare Allah, il Dio che ha fondato l’Islam (sic!), ma che abita nella Città Santa, che fu culla di Maometto: tutti in qualche modo sono portati in questo abbraccio pregante verso la Mecca.
Ci sarà poi il tempo di spiegare che qui siamo a Firenze e che preferiamo adorare quel Dio che abita lì dove abita l’uomo, accanto alla sua casa, in un piccolo tabernacolo, per farsi vicino ad ogni uomo e così donargli quella libertà di rivolgersi ovunque e di dire Padre nostro?
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