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« Torna alla edizione
Dopo il suicidio di Mario Monicelli sono stati molti i commenti, alcuni davvero gravi e stigmatizzabili. Silvio Viale e i radicali hanno strumentalizzato il fatto per perorare la depenalizzazione dell’eutanasia; Bernardo Bertolucci ha parlato del suicido di Monicelli come «gesto vitale, quasi festoso»; per Ettore Scola questa fine suicida è «spavalda»; per Paolo Villaggio è «straordinaria, eroica, magnifica». Alcuni commentatori, ancora, hanno chiamato «scelta di volare» il suo buttarsi dal quinto piano dell’ospedale e sfracellarsi al suolo.
Ma l’affermazione più influente in questa vicenda l’ha fatta Giorgio Napolitano: «Se n’è andato con una ultima manifestazione della sua forte personalità, un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare». Il capo dello Stato aveva già fatto deflagrare pubblicamente il caso Welby – chiedendo al Parlamento di dibattere sulle questioni sollevate da Welby stesso, dopo che quest’ultimo gli aveva rivolto una lettera – e non ha voluto firmare il decreto per salvare Eluana.
Napolitano ha fatto trasparire un giudizio positivo sull’ultimo atto della fine del regista («uno scatto di volontà» è infatti un’espressione che esprime positività). Speriamo davvero che altri non si sentano incoraggiati dal Presidente della Repubblica a fare come Monicelli.
Ora, bisogna aver pietà e compassione per un uomo che si suicida, spesso nella sofferenza e nella solitudine. Tra l’altro il regista quasi di sicuro, e comprensibilmente, è rimasto segnato dal fatto che suo padre si suicidò. Inoltre, è umanamente impossibile sapere che cosa gli sia passato per la mente prima del suicidio. Non possiamo sapere se e quanto in quel momento fosse disperato, se e quanto fosse lucido oppure no. In quest’ultimo caso il suicidio non gli sarebbe imputabile e non sarebbe nemmeno una vera scelta, non sarebbe «uno scatto di volontà». E, qualora sia stato da lui scelto, non possiamo affatto sapere se sia stato un atto di coraggio oppure di viltà, quella descritta ben prima del cristianesimo da Aristotele: «Il morire per fuggire la povertà o l’amore o una sofferenza qualsiasi non è da uomo coraggioso, ma piuttosto da vile: infatti, è una debolezza quella di fuggire i travagli».
Ma, nondimeno, non possiamo non dire che, sebbene a volte non sia imputabile perché non viene scelto con consapevolezza, il suicidio in sé è gravemente malvagio; e quando è scelto con l’intenzione di affermare un valore - e non per viltà - esprime un coraggio malvagio, che sarebbe meglio chiamare temerarietà. Infatti, il suicidio è la distruzione della vita di un essere umano, il quale ha un valore incommensurabile, una dignità preziosissima che viene calpestata da chi si toglie la vita. Perciò anche il filosofo Immanuel Kant, che ha inteso separare nettamente la filosofia dalla fede, scrive che «il suicidio rimane sempre un fatto mostruoso».
Da che cosa deriva la dignità umana? Dalle caratteristiche peculiari che innalzano l’uomo al di sopra di ogni altro essere: la sua natura razionale, la libertà (malamente usata da chi si autodistrugge), il senso etico, il senso estetico, ecc. La dignità è costituita già da queste caratteristiche, che non richiedono alcuna fede religiosa per essere colte. Dopodichè, sia la fede nel Dio cristiano sia la filosofia, che può dimostrare laicamente l’esistenza di Dio, possono ancor più farla risaltare. Ma per coglierla non è necessario fare appello - religiosamente o filosoficamente - all’esistenza di Dio. Tornando a Bertolucci, su una cosa siamo d’accordo, tra quelle che ha affermato: come lui, anche noi ci chiediamo se il regista, prima di farla finita, «avesse visto “Vieni via con me”», il programma di Roberto Saviano e Fabio Fazio che ha recentemente celebrato come esemplari le scelte di Piergiorhio Welby e di Beppino Englaro. Non lo sappiamo, ma il dubbio ci assale. E ci auguriamo che quella visione non abbia incoraggiato il regista a suicidarsi.
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