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Da ieri il Pakistan non ha più il Ministero per le Minoranze. Il dicastero per cui Shabhaz Bhatti, cristiano, fu assassinato il 2 marzo, non esiste più. E per quante scuse il governo del premier Gilani possa trovare, questa è una grossa vittoria per l'estremismo islamico. Tanto più che lo stesso governo, proprio in questi giorni, ha reso pubblico l'esito dell'inchiesta sull'omicidio di Bhatti: da intercettazioni telefoniche e interrogatori è infatti emerso che il mandante è stato il capo talebano Ilyas Kashmiri, che avrebbe poi appaltato l'esecuzione dell'agguato ad Asmatullah Mawaia, un leader militare del Punjab.
Eliminare Bhatti non era difficile: il ministro, che pure aveva ricevuto molte minacce per il proposito di ridimensionare la famigerata 'legge sulla blasfemia', viaggiava senza scorta. Da parte sua una grande dimostrazione di coraggio. Da parte del governo, una grande dimostrazione di incoscienza e inefficienza, a dir poco.
Comunque sia, oggi i taleban possono festeggiare: l'obiettivo è stato raggiunto. Al posto del Ministero nazionale vengono istituiti cinque Ministeri regionali, che finiranno presto nel dimenticatoio, o nel gorgo delle tensioni etniche e religiose che in molte zone del Paese sono di fatto incontrollabili persino dal potere centrale, figuriamoci da quello locale. Con questa decisione il Pakistan fa un passo indietro di quasi quarant'anni: il Ministero delle Minoranze era stato istituito nel 1973, con l'approvazione della nuova Costituzione e Ali Bhutto primo ministro, ed era rimasto a lungo nella competenza del ministro degli Affari Religiosi. Lo scorporo (chiesto con insistenza e con buone ragioni dalla minoranza cristiana, circa 3 milioni di persone) e la creazione di un ministero autonomo risalgono appena al 2008: il primo ministro fu appunto Shabhaz Bhatti, che di fatto è stato anche l'ultimo e unico.
Se consideriamo che la 'legge sulla blasfemia' è sempre in vigore, che Asia Bibi e centinaia di altre persone restano in carcere (condannate solo in base alla parola di qualche fanatico dell'islam), che gli Usa devono compiere ogni mese decine di incursioni con i droni per tenere a bada guerriglieri e ribelli in territorio pachistano e che Benladen è rimasto latitante in Pakistan per anni, la conclusione diventa purtroppo amara: il governo del Pakistan è in drammatica ritirata di fronte alla pressione dell'estremismo islamico. Lo è al punto da entrare sempre più spesso in polemica con il Paese – gli Usa – che più si è battuto negli ultimi anni per salvarlo questa deriva. L'ultima notizia è proprio di ieri: il ministro della Difesa Mukhtar ha chiesto al governo americano di sgombrare la base aerea di Shamsi, da dove partono gli attacchi aerei contro i taleban della zona di confine con l'Afghanistan. Il nemico è insidioso e crudele, lo sappiamo bene. E il governo Gilani, con ogni probabilità, non può contare sulla totale fedeltà di almeno una parte dei servizi segreti e delle forze armate. La politica del compromesso e del cedimento di fronte alla violenza, però, non può produrre risultati positivi. Incita a un ulteriore discriminazione nei confronti dei gruppi minoritari – i cristiani come gli hindu, a loro volta poco più di 3 milioni di persone, ma anche gli sciiti, che sono il 15% dei 180 milioni di pachistani –, non così ridotti come si potrebbe credere. E incoraggia i processi di disgregazione dello Stato democratico, che nella parità di diritti tra gli individui e i gruppi trova uno dei suoi fondamenti. E di questo, purtroppo, già abbondano i segnali.
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