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Le quote rosa sono una tale assurdità che non si sa da che parte cominciare a ragionarci su. A parte il colore, oggettivamente irresistibile, non hanno veramente senso. Se fossi una femminista ne sarei offesa. Visto che invece sono una donna che non vuole rubare il posto all'uomo, orgogliosa di essere prima moglie e madre, poi lavoratrice, credo che siano una vera sciagura.
Le quote rosa – che sono ormai legge – mi fanno pensare all'evangelico pezzo di stoffa nuova cucito sulla vecchia: finisce che si strappano tutte e due. E sebbene il Vangelo non si esprima esattamente sul tema, e sebbene io non voglia unirmi alla schiera dei credenti fai da te, che attribuiscono a Gesù Cristo di tutto – proverbi, superstizioni e chiacchiere del parrucchiere – più ci penso più questa immagine mi sembra calzante. Questa legge fa male sia al mondo del lavoro che alle donne.
Se noi donne vogliamo dare un contributo importante attraverso il lavoro anche fuori di casa, cosa che comunque non è un dogma, dovremmo mettere il vino nuovo in otri nuovi. Lottare perché si entri in una nuova logica lavorativa, dove i modi e i tempi siano al centro della questione: tagliare quelli morti, badare al risultato, fare lavoro di squadra, avere il diritto alla flessibilità, mettere l'accento sul fatto che una donna non può lavorare come un uomo nello stile, né quanto un uomo, almeno in certe fasi della vita familiare.
Come al solito, invece, le donne, sempre bisognose di approvazione, hanno lottato per ottenere un altro, l'ennesimo, giogo: rendersi sempre più simili all'uomo. Questo giogo non è affatto soave, perché una donna non è un uomo e investire nel mondo del lavoro – con queste regole e questi tempi – puntando al potere, le costa davvero troppo in termini affettivi e personali.
Questa assurdità delle quote rosa produrrà presto nuove assurdità. Dal 2015 le aziende dovranno avere almeno un terzo di donne nei loro consigli di amministrazione. Obbligatorio. Mi chiedo se si troveranno così tante donne che immolino se stesse e magari i propri mariti e i propri figli sull'altare di un lavoro che le richiederà fuori di casa dalla mattina alla notte.
La prima assurdità si è vista in questi giorni: il Tar costringe il sindaco di Roma a formare una nuova giunta comunale perché adesso c'è solo una donna. Alemanno deve dunque eliminare un uomo, e propone di sostituirlo con Rosella Sensi. Il nome lascia perplessi molti, tanto che mi domando: e se fosse una provocazione?
Il dubbio attanaglia perfino me, che non sono particolarmente sveglia nell'intuire la malizia. Arrivo sempre per ultima. Ma questa volta il sospetto mi viene. No, dico, il Tar dice al sindaco di Roma Alemanno che nella giunta comunale ci sono poche donne, e lui che fa? Propone di sostituire un uomo con Rosella Sensi, che né è stata votata, né ha dimostrato finora strabilianti capacità gestionali, almeno a giudicare da quanto soffre quel povero romanista di mio marito. La Sensi infatti è la figlia del presidente della Roma, e lo ha sostituito dopo la sua morte. A me sta anche simpatica, se non altro per la familiarità con quello che a casa nostra – un covo di romanisti, mio malgrado – è l'unico e il solo capitano (Totti), ma come curriculum per diventare amministratore di una città difficile come Roma non basta. Chissà quanti altri, donne e uomini, più preparati, appassionati e anche con più energie e tempo ci sarebbero.
Per questo mi viene in mente che sia una specie di boutade. "Volete una donna, purchessia? Eccovela".
Non importa dunque il curriculum, la gavetta, la formazione, la vocazione, basta che sia femmina, in ossequio all'imperativo di uniformare, appiattire le differenze. Tutti devono fare le stesse cose. E mentre penso con rammarico che quel "maschio e femmina, a sua immagine" racchiude un tesoro teologico ancora in gran parte inesplorato, un segreto esplosivo che ci rivela tratti fondamentali del nostro essere più intimo – quando l'uomo e la donna agiscono profondamente insieme sono simili a Dio, e infatti la vita si genera così – la comunità omosessuale prontamente esulta alla sentenza del Tar.
Questa sì una bella spinta all'appiattimento, al "siamo tutti uguali", in una eterna pubertà adolescenziale in cui la propria vera identità sessuale va ancora abbracciata davvero, in cui non ci si decide a diventare adulti e a generare.
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