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«Metti nella mia bocca una parola ben misurata di fronte al leone»: l'invito, contenuto in Ester 4,17s, andrebbe sempre tenuto presente. Specie se si è Vescovi e se si parla con la stampa. Per non sollevare polveroni, come quello capitato lo scorso 15 settembre dopo il titolo apparso sul quotidiano "Il Giorno": Il Vescovo di Cremona: «Anche chi è sposato, può diventare prete».
Titolo, subito rilanciato da tutte le agenzie. «Non c'è nessun ostacolo dogmatico all'ordinazione di uomini sposati di provata fede, che godano di buona reputazione nel popolo di Dio», si legge nell'intervista al prelato, mons. Dante Lafranconi. Un'ipotesi, insomma, a suo giudizio, «da valutare». Come tante altre. Salvo poi rettificare, accusando il giornalista d'aver diffuso in modo «incompleto» le sue parole.
Poiché nel testo originale, lui avrebbe precisato: «Io però non sono favorevole, come scelta per sopperire all'attuale diminuzione del clero». Quindi, fa capire mons. Lafranconi, è no, se vi si voglia vedere una sorta di "salvagente" alla crisi delle vocazioni. Ma qualora se ne voglia discutere in linea di principio, perché no? Una botta nello stomaco: solo lo scorso 21 agosto, Papa Benedetto XVI alla Giornata Mondiale della Gioventù invitò oltre mille seminaristi a «vivere nel celibato per il Regno dei Cieli». Lo stesso Gesù Cristo parlò di «eunuchi per il Regno dei Cieli», San Paolo di "carisma" ed il Catechismo della Chiesa Cattolica di «sviluppo della grazia battesimale» (n. 1619).
Ma il Vescovo di Cremona preferisce pensare ai «cattolici di rito orientale» che contemplano l'"opzione". Definiti, infatti, «eccezioni» contrarie alla Tradizione da padre Laurent Touze, docente alla Pontificia Università della Santa Croce, in un'intervista a "Zenit" del 7 marzo 2010. Quanto al fatto che la Chiesa latina del passato avesse «già conosciuto l'esperienza di un clero uxorato», come ricorda il Vescovo di Cremona, è ancora padre Touze a rettificare: perché «nei primi secoli», chi – ammogliato – avesse accettato di diventare sacerdote o Vescovo, doveva prima «chiedere il permesso» alla consorte e poi, «dal momento dell'ordinazione», praticare l'assoluta «continenza».
Proprio recentemente il card. Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero, ha definito il celibato uno dei «doni più grandi» fatti alla Chiesa dal Signore. Ed un confratello di mons. Lafranconi, il Vescovo di San Marino-Montefeltro, mons. Luigi Negri, parlando due anni fa ai suoi preti, lo ha dipinto come l'«espressione», anzi «l'esplosione della nostra affezione unica al Signore Gesù Cristo». Ma c'è stato un secondo scivolone, nell'intervista senza rete di mons. Lafranconi, scivolone sfuggito anche ai media: il prelato ha dichiarato di non sentirsela «di condannare gli sposi, che, per soddisfare il legittimo desiderio dell'unione intima, decidessero di utilizzare il preservativo», nel caso uno dei due sia affetto da Hiv. Posizione non nuovissima per lui: sostanzialmente identica la espresse in difesa del card. Martini, che sostenne la stessa cosa sul settimanale "L'Espresso" nel 2006.
All'epoca mons. Lafranconi parlò di una «protezione dal contagio generalmente ammessa, nella pratica pastorale». Pur affrettandosi a precisare come «in pubblico la Chiesa» faccia «benissimo ad insistere sulla fedeltà coniugale e la castità». Come dire? Vizi privati e pubbliche virtù. Il solito metodo del passo avanti ed uno indietro. Anche tollerando che in questa unione, definita «intima» da mons. Lafranconi, manchino di fatto i connotati previsti per tali atti dal Catechismo: la donazione totale di sé e l'apertura alla vita. Lo stesso Catechismo, che bolla come «intrinsecamente cattivi» i metodi contraccettivi (n. 2370), proponendo la continenza come alternativa.
Di certi "incidenti di percorso", per la verità, già ne erano capitati altri in passato al Vescovo di Cremona: il 18 marzo 2005 scatenò un vespaio, quando ad un convegno organizzato dalla Cei presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, presupponendo come certa la prospettiva di una «sostanziale equiparazione delle convivenze di fatto anche omosessuali alla famiglia legittima», sollecitò i cristiani ad «elaborare proposte sotto il profilo giuridico per la regolamentazione di un dato di fatto, che non può essere ignorato dal legislatore, senza però intaccare l'unica figura naturale della famiglia, che è quella fondata sul matrimonio».
Altro caso da manuale di un passo avanti ed uno indietro. Ma la cosa non fu del tutto indolore, anche perché all'epoca era Presidente della Commissione episcopale della Cei per la Famiglia e la Vita. Incarico che oggi non riveste più, se non a livello lombardo. Anche in quell'occasione i quotidiani nazionali si scatenarono: sul "Corriere" il presidente onorario dell'Arcigay e deputato Ds, Franco Grillini, parlò di un «importante passo in avanti da parte della Chiesa», cogliendo l'assist episcopale per rilanciare la sua proposta di legge sui Pacs. Eppure, ancora in una Nota della Cei del 28 marzo 2007 si ribadisce come «la legalizzazione delle unioni di fatto» sia «inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo» e tale da provocare un «effetto inevitabilmente deleterio per la famiglia», ancor «più grave» se riferita ad «unioni di persone dello stesso sesso».
Non meglio in "casa propria", in diocesi di Cremona, dove da due anni giace inascoltata e disattesa la petizione fatta pervenire a mons. Lafranconi da oltre un centinaio di fedeli, per ottenere la celebrazione della S. Messa di San Pio V. Niente chiese, né preti per loro. Nonostante il Motu Proprio di Benedetto XVI, possono attendere. Evidentemente in agenda, per lui, è più urgente "valutare" il celibato dei preti... o no?
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