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La tempesta politica in corso in Italia ha tutte le cause immediate e tutte le connotazioni personali che sappiamo, ma ciononostante vale la pena di non dimenticare che in sostanza non ha nulla di specifico: è soltanto un caso particolare di un fenomeno generale, ovvero la crisi finanziaria sotto il peso della quale stanno andando verso il collasso più o meno tutti gli Stati.
Vale più che mai la pena al riguardo di andarsi a vedere un acuto saggio dell'economista polacco Leszek Balcerowicz pubblicato l'anno scorso dall'Istituto Bruno Leoni, Il fallimento degli Stati sovrani dell'Unione Europea: una prospettiva comparata, nel quale quanto ora sta accadendo veniva accuratamente previsto e veniva anche sottolineato che, se non si ha il coraggio (che adesso non si sta avendo) di lasciar fallire la Grecia e gli altri piccoli Stati che già ci stanno arrivando, si finirà per giungere a quello davvero catastrofico degli Stati più grandi, Italia compresa.
Secondo Balcerowicz e altri esperti altrettanto autorevoli e oggi altrettanto inascoltati, il temuto "effetto domino" potrebbe venire molto più probabilmente provocato dal costo del salvataggio della Grecia piuttosto che da quello assai minore dei provvedimenti di mitigazione delle conseguenze sociali del suo fallimento. Come già in altra occasione si diceva, è meglio insomma lasciar andare a fondo la nave limitandosi al soccorso dei naufraghi piuttosto che dilapidare risorse nell'impresa impossibile di tenerla comunque a galla. Purtroppo però sin qui l'interesse delle grandi banche tedesche e francesi, che hanno nel loro portafoglio ingenti quantità di titoli di stato greci, continua a contare più di ogni altra cosa. C'è infatti qualcosa di un po' ipocrita nello sdegno della stampa soprattutto tedesca per l'irresponsabilità delle cicale greche, che forse sarebbe state molto più prudenti se le formiche tedesche non avessero continuato a fare loro allegramente prestiti sempre più avventati.
Al di là della cronaca immediata tuttavia il quadro generale della crisi non solo degli Stati dell'Unione Europea ma in genere di tutti gli Stati moderni in estrema sintesi è il seguente: la gigantesca dilatazione della spesa, provocata dalla loro pretesa di gestire e di governare direttamente una quantità tendenzialmente infinita di beni e servizi sociali, ha spinto gli Stati sia ad aumentare la pressione fiscale fino a livelli che come nel caso dell'Italia sono insopportabili, e sia a indebitarsi. Alcuni, come ad esempio gli Stati Uniti, hanno tirato la seconda leva più della prima; altri hanno fatto il contrario; altri ancora, come si è fatto da noi, hanno già tirato sia l'una che l'altra.
In assenza di drastiche e rapide riduzioni della spesa viene il momento in cui, come già accade nel nostro Paese, l'onere del pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico è tale da imporre un continuo aumento della pressione fiscale. Si genera così un circolo vizioso: la pressione fiscale abnorme (in Italia è sull'ordine del 50 per cento della produzione interna lorda, Pil) strozza l'economia; il ristagno economico porta con sé un riduzione del gettito fiscale, da cui consegue un ulteriore ricorso all'indebitamento e così via. Per rompere tale circolo vizioso occorrerebbe, dicevamo, una rapida e drastica riduzione della spesa pubblica, ma ciò urta contro il blocco sociale costituito da chi gode di privilegi finanziati con risorse pubbliche: un blocco sociale che si compone sia dei percettori di tali privilegi che degli apparati burocratici che li gestiscono e li erogano.
Prima di procedere vale la pena di chiarire un concetto: forse anche a causa dell'uso che se ne fece nell'età delle rivoluzioni, la parola "privilegio" viene oggi istintivamente collegata all'idea di ricchezza e di élite. Questo è un equivoco: non esistono soltanto i privilegi di élite ma anche quelli di massa. I primi sono più irritanti e più clamorosamente scandalosi, ma nella condizione moderna in termini di economia politica i secondi pesano molto di più. Alcuni milioni di operai e di impiegati dell'industria, che sono andati e continuano ad andare in pensione nemmeno a 65 anni (il che è già assurdo tenuto conto dell'attuale vita media), ma addirittura tra 55 e 60 anni grazie ai più diversi "scivolamenti" e pre-pensionamenti, pesano sulla spesa pubblica centinaia di volte di più di alcune decine di ministri che viaggiano gratis per gli affari loro sugli aerei della presidenza del Consiglio. Beninteso: i privilegi dei potenti vanno censurati, ma stiamo bene attenti a che lo sdegno verso la "casta" non diventi un alibi per non porsi il problema dei privilegi di massa, che sono il vero carico insostenibile che sta mandando a fondo gli Stati moderni.
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