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SE IL MATRIMONIO PERDE IL SUO VALORE, LA CERIMONIA POMPOSA CERCA DI RIDARGLI SIGNIFICATO SENZA RIUSCIRCI
Un esempio concreto di cerimonia semplice che ha dato il via a vent'anni di matrimonio solido perché indissolubile
di Marina Corradi
 

Lunedì sono vent'anni. Vent'anni da quella mattina di pioggia in cui ci siamo sposati. Nell'album delle fotografie mio marito è magro e pallido, la faccia spaventata di un ragazzo il giorno dell'esame di maturità. Io più spavalda invece, con addosso un tailleur comprato solo tre giorni prima – giacché non riuscivo a convincermi che mi avrebbe sposata davvero. Sorrido ancora nel pensare alla mia rapida incursione in un negozio del centro.  Sono entrata affannata, la macchina lasciata in sosta vietata: «Ho bisogno di un abito per un matrimonio», dico. Su che colori vuole stare, mi domanda la commessa. «Beh, sul bianco naturalmente», rispondo, pensando: che domanda sciocca. E la commessa: «Ma signorina, il bianco a un matrimonio è solo per la sposa!». Io di rimando, seccata: «Infatti la sposa sono io, si sbrighi e mi faccia vedere qualcosa in fretta, che mi danno la multa». Ho comprato il primo tailleur che mi ha fatto provare, me ne sono uscita con il sacchetto in mano, dubbiosa: ma quello là, poi, mi sposerà veramente? E mi veniva in mente la sua faccia al momento di spedire le partecipazioni, da una buca delle lettere di piazza Novelli: occhi sbarrati, un preoccupante colorito verde, da epatite – oppure da panico.
Però, poi in chiesa tutto è andato bene – benché fosse un po' rigido, al momento del sì. Mi passa come un film, veloce, davanti agli occhi il viaggio di nozze in Irlanda, fra greggi e scogliere. E al ritorno lo strano abituarsi a vivere insieme, a essere in due. Ma forse ciò che ci ha unito con più forza è stata la notizia che il primo figlio era in viaggio: che stupore, che meraviglia addosso. Ci ha unito la sera in cui siamo corsi in ospedale, e ci aspettava una lunghissima notte, insieme; lui pallido come quella mattina in chiesa, però accanto, però vicino a me. Risento la voce forte dell'ostetrica: «Maschio!». E il pianto furioso che diceva: sono nato, sono vivo. Noi due chini a guardarlo, senza parole – insieme. E poi, poi. Tornare stanchi la sera, perdere il lavoro o perdere un figlio annunciato e già amato. E un altro bambino che arriva, e un'altra ancora, una nidiata festosa che ti chiama e ti pretende a tutte le ore del giorno e della notte. Essere stanchi morti, pensare di non farcela. Litigare, aspramente, amaramente – e poi fare la pace. Assistersi, quando uno si ammala; imparare – la cosa più difficile – a avere pazienza, e non dire ciò che ti verrebbe da gridare. Imparare a volere bene: io non sapevo che sposarsi era solo un inizio, e che ci vogliono vent'anni, per volersi bene davvero. Vedo amici partiti con entusiasmo che si lasciano senza voltarsi indietro. Cosa c'è fra noi due, di diverso? C'è che non siamo soli; c'è un terzo, un garante fra noi, che ci accompagna. È la fedeltà al Dio in cui crediamo che ci tiene insieme; o forse anzi è proprio lui in persona. Noi, che vent'anni fa non sapevamo; noi sorridenti e ignari sotto all'ombrello davanti alla chiesa, in una mattina di pioggia.

 
Fonte: Tempi, 30 Agosto 2011