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Il giorno dei santi – ero in ritardissimo uscendo dal lavoro, dovevo dare il cambio coi bambini a mio marito (festa, niente scuola, niente tata) – mi sono fiondata carica delle mie solite otto borse (bene essere pronte in caso di rapimento alieno) al parcheggione della Rai. Tutta sudata l'ho percorso in lungo e in largo due o tre volte con le chiavi del catorcio in mano, centocinquantotto pulsazioni al minuto, chiedendomi affranta chi mai avesse potuto rubare la mia macchina da senza tetto, impresentabile e piena di avanzi, prima di ricordarmi che per un rarissimo colpo di fortuna avevo trovato invece posto nel parcheggio più vicino, quello davanti al cancello (credo che ci sia gente che ci dorme per non abbandonare la piazzola). Ho cercato un lato positivo, nella mia inutile corsa con i tacchi, carica come un cammello. L'ho cercato ma non so. Forse l'esercizio fisico mi avrà apportato un grande beneficio cardiocircolatorio. Forse per questo avrò allungato la mia esistenza di due decimi di secondo (e probabilmente li utilizzerò per fare uno starnuto).
Il fatto è che la vita anche quando ci va tutto ma proprio tutto benissimo, è comunque piena di complicazioni. Minimo minimo di fatica. Io cerco di spiegarlo ai miei figli. Gliel'ho detto anche quella stessa sera, quando mi ha accolto una standing ovation a tavola. Avevo portato un uovo alla coque quasi commestibile. Quello prima era sodo. Quello prima ancora liquido. La realtà è che a casa mia basta portare a tavola qualcosa di presentabile per ricevere applausi.
Oltre ad essere abituati a un livello di cibo appena decente, i ragazzi mi vogliono bene, e sono piuttosto benevoli nei confronti dei miei difetti. Sanno che cucino mentre visito (sono Barbie dottoressa col mio folendoscopio losa fuxiam), mentre faccio domande a trabocchetto sulla lunghezza della Mosella (fiume forse mai sentito nominare prima di avere un figlio alle medie), mentre sostengo conversazioni di buon vicinato sul clima dal balcone con la signora detta Daddà, la vecchietta del secondo piano del palazzo di fronte.
Non contenta di ammannire menù pietosi, somministro ai miei poveri pargoli preziose riflessioni di elevata portata morale. Tanto loro non ascoltano, impegnati come sono a infilare dita nelle uova, chiedere "posso alzarmi?", parlare tutti insieme e trovare astuti nascondigli per i pezzi di zucchina (sono allergici alle vitamine), occultandoli dentro tovaglioli o facendoli scivolare elegantemente sotto la sedia.
"La vita è difficile, bambini; è per questo che fare l'uovo alla coque non è semplice come sembra" ho detto l'altra sera, nel goffo tentativo di rivendermi l'omelia che padre Emidio aveva appunto fatto la mattina per la festa di tutti i santi.
Una volta uno psichiatra americano – ci ha raccontato in chiesa – stufo di pelare soldi inutilmente ai suoi pazienti, ha scritto un libro, esordendo proprio così. La vita è difficile. Molti dei nostri problemi nascono proprio nel momento in cui cerchiamo dimenticare questa semplice realtà. Ero troppo lontana (mi metto all'ultima panca per evitare che si noti il mio ritardo) per sentire il nome dello psichiatra, ma il concetto mi è arrivato benissimo. Anche perché ricordo bene la fase della mia vita in cui mi sono trovata con stupore a fare i conti con questa realtà: la vita è difficile. E da allora ho cominciato a ingranare, a convertirmi – strada lunga e tortuosa, ma è già tanto imboccarla.
Questa consapevolezza che appunto, lo ripetiamo, tante volte non fosse arrivato, la vita è difficile, manca a molti degli uomini contemporanei. Cresciamo, volenti o nolenti, in un clima culturale di spensieratezza posticcia. E quando le difficoltà arrivano sembrano sempre tragiche, e sempre impreviste, soverchianti, immeritate, ingovernabili. Invece sono parte della vita. Quelle piccole e le grandi.
Secondo padre Emidio è anche per questo che il Vangelo fatica ad arrivare al cuore dell'uomo contemporaneo, perché in molti casi manca l'uomo, e prima di tutto la consapevolezza della durezza della vita, della fatica di portare a casa la pagnotta e pure la pellaccia ogni sera. Ai tempi di Gesù le sue parabole, le sue parole arrivavano più direttamente, perché la consapevolezza della fatica della vita, di non dare niente per scontato, la percezione della incredibile fragilità e la consapevolezza dell'esistenza di Qualcuno di più grande erano nel patrimonio culturale comune.
L'illusione del controllo che per esempio ci danno tecnica e tecnologia è appunto un'illusione, perché il male c'è e agisce nelle nostre vite e non lo si può completamente dominare. Le nostre vite sicure sono un'illusione.
Accettare questa realtà significa dire sì alla prima nostra vocazione, quella alla vita, tutta, il pacchetto completo. Poi c'è la vocazione ad essere cristiani, ad accettare che sia Gesù Cristo la nostra via. Infine la terza, la vocazione specifica, quella che impone che a una certa età si cominci in qualche modo concreto a dare la vita, a portare frutto, a diventare dono per i fratelli, a somigliare a Gesù Cristo, ed è questa la santità (sto sempre riassumendo l'omelia di padre Emidio per la festa di tutti i santi): il segno che abbiamo imboccato la strada è che gli altri cominciano a chiederci qual è il nostro pusher, dove troviamo quella roba così buona che ci rende in grado di reggere per noi stessi e per qualcun altro che ci chiede una mano. Si diventa credibili, se si è persone serie, e si convincono gli altri, che in qualche modo cominciano a venirti dietro (non a me, per favore, soprattutto se mi vedete vagare tutta sudata in un parcheggio).
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