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Il problema delle quote rosa non è che donne siano entrate nel mondo del lavoro, ci mancherebbe. Il problema è che il mondo del lavoro è entrato nelle donne. E ci è entrato a gamba tesa. Ha imposto le sue regole, i suoi tempi, i suoi ritmi a volte devastanti anche al mondo femminile.
Se le quote rosa servono a far cancellare per legge le differenze, imponendo le donne ai vertici delle aziende - entro il 2015 almeno un terzo dei consigli di amministrazione dovrà essere composto di donne - imponendo loro di conformarsi allo stile del potere, io personalmente dico no, grazie, con tutto il cuore. In un'epoca in cui si cerca di affermare il principio che tutto di noi può essere scelto, autodeterminato, compreso l'orientamento sessuale, tutto quello che rimanda alla differenza tra maschile e femminile viene respinto con fastidio.
E invece «maschio e femmina li creò», dice la Genesi, affermando una verità che peraltro non richiede la fede per essere compresa. Non è un accidente, ma ci dice qualcosa di fondamentale su chi siamo. Il nostro genio, il genio femminile, è quello di mediare, aspettare chi è rimasto indietro, valorizzare le differenze: non sono queste le qualità che servono in un consiglio di amministrazione. Ed è talmente vero, che le donne non vi siedono spesso. Non è per una congiura degli uomini, non è per il famoso soffitto di cristallo, ma perché noi non siamo programmate per un certo stile di lavoro.
Personalmente, se domani ricevessi una lettera che mi nomina in un importante vertice aziendale, che me lo impone per legge, mi darei alla macchia. Già me le vedo, le riunioni del cda alle sette di sera - l'ora del semolino sputazzato e dei compiti corretti e delle docce - le telefonate chilometriche, i caffè coi colleghi all'ora della festina di compleanno, e poi le lotte fratricide, gli sgambetti, le trame occulte. Perché il potere - di potere parlano le quote rosa - ha logiche che non mi interessano, e che secondo me sono estranee alle donne, le quali non sono fatte per comandare, imporsi, passare sopra, schiacciare.
Ne sia la prova il fatto che spesso quando ottengono il potere si incattiviscono, perché tradiscono la loro vera natura adeguandosi allo stile degli uomini, Credo che, alla fine, si tratti di insicurezza, mancanza di consapevolezza della propria vocazione: le donne arrivate al vertice nella maggior parte dei casi vogliono omologarsi ai colleghi maschi, e non sanno o non possono trovare uno stile nuovo. Così pagano un prezzo altissimo sul piano personale e familiare. Il punto cruciale in fondo è quello dei figli - nessuna battaglia culturale potrà mai cancellare il dato di fatto che siamo noi a partorirli e ad essere fatte per accudirli - che o richiedono tempo, presenza, forze e dedizione, se ci sono, oppure bruciano il cuore delle donne che non li hanno (non credo alle donne che dicono di non volerne).
Insomma, che noi donne possiamo fare qualcosa di buono anche fuori della famiglia non è più in discussione. Ma, ora che lo sappiamo, chiediamoci: a che prezzo? Fino a che punto è lecito pagare e far pagare quelli che ci sono affidati, per poterci "realizzare"? Anche se in certi casi possiamo fare cose buone, contribuire a progetti positivi, quanto costa, questo, al benessere delle persone che hanno bisogno di noi? E invece non importa che tu sia uomo o donna, che tu abbia o non abbia figli, che ne abbia uno o quattro (ehm, parlo prò domo mea...), di quale età: quello che è richiesto dalla professione è lo stesso per tutti, con le stesse modalità.
Sogno invece un mondo del lavoro in cui si aiutino e si premino le donne che vogliono seguire da vicino i propri figli - è un bene per tutta la comunità e per il suo futuro-agevolandole con gli orari, misurando i risultati e la mole di lavoro svolto più che il tempo trascorso magari con la semplice presenza, aspettandole se decidono di stare a casa anche qualche anno: tantissime lo farebbero molto volentieri.
Vorrei anche, se posso esagerare con il sogno, che si valorizzassero le competenze che una mamma sviluppa quando, tirando su i suoi bambini, impara a mediare crisi con un aplomb che farebbe impallidire un inviato ONU in Medio Oriente, a tagliare l'inessenziale, a sfruttare i tempi morti, a risolvere problemi velocemente, a delegare, a chiedere aiuto formando una rete di collaborazione e amicizia con chiunque le capiti a tiro (credo che le mie amiche vedendo il mio numero sul display fra poco non mi risponderanno più, temendo che io chieda loro una mano per l'ennesima volta).
Il femminismo nella sua cieca foga non si è accorto che, pur partite da una istanza di giustizia, le donne hanno adottato le stesse logiche maschili che volevano ribaltare. E invece che passare dal modello maschile del dominio a quello femminile dell'accoglienza, le femministe, illuse di avere vinto, hanno invece perso due volte, perché si sono adattate alle regole maschili, e hanno perso la loro specificità, tradito la loro natura, abbandonato la vocazione.
Esattamente questo è successo per il mondo del lavoro: le donne hanno lottato per entrarci, ma invece che combattere perché il lavoro consentisse tempi flessibili, fasi morbide per permettere alle mamme di essere vicine ai bambini, alle mogli per stare accanto ai mariti, continuano a chiedere solo asili nido aziendali - l'unica idea di conciliazione accettata - per mollare in mani estranee bambini ancora lattanti, e pretendono di fare carriera, pur sapendo che le logiche della carriera sono quasi totalizzanti nell'impegno esigente che richiedono.
Ho appena finito di ritirare i panni stesi, siamo nel cuore della notte e ho salutato la mia vicina di cortile che dal balcone di fronte sta facendo la stessa cosa. Anche lei come me plurimamma, anche lei lavoratrice. Sporgiamo il naso fuori di casa solo perché è notte fonda, e nessuno può vedere in che condizioni pietose siamo ridotte. Ma mi faccio coraggio: quando avrò finito questo articolo (le cose che mi piacciono le posso scrivere solo di notte) mi manca solo di trovare dodici calzini - possibilmente appaiati a due a due, o almeno di colori vagamente somiglianti - e posso andare a dormire. Domani, a Dio piacendo porterò ancora a casa la pelle, e forse concluderò la giornata avendo compiuto circa un quarto delle cose che avrei dovuto fare - a patto che nessuno davanti a me in coda tamponi, che nessun figlio si ammali, che nessun capo abbia la luna storta, che non mi appisoli alla conferenza stampa o alla riunione di interclasse (quasi impossibile).
Le donne nate dopo il femminismo sono cresciute con l'illusione che fare tutto fosse possibile, anzi fosse un diritto. Non è così. Il lavoro ci costringe a pagare un prezzo, e bisogna stare molto attente a far sì che questo prezzo non diventi troppo alto, che la gerarchia sia chiara e ben definita: prima viene la famiglia, e prima deve rimanere anche di fronte alle tentazioni delle maggiori gratificazioni che il lavoro può dare.
Se l'obiettivo è la carriera quasi inevitabilmente la gerarchia salta. Perché le quote rosa di questo parlano: non di lavoro e basta, ma di carriera, di successo, di potere. Se non ora, quando? Possibilmente mai, grazie.
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