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Mi chiamano missionario.
Dopo quasi vent'anni mi ci sono così abituato che qualche volta lo dico anch'io, se non c'è tempo per le distinzioni.
Eppure lo dico ancora con un certo disagio.
Generalmente si pensa al missionario come a un sacerdote che va in Paesi in via di sviluppo per aiutare i poveri a cavarsela meglio. L'eventuale lavoro in diocesi, parrocchie o seminari viene visto in prospettiva del servizio ai poveri. In questo senso credo di non usurpare la qualifica.
Per secoli, però, il missionario non era solo questo. Non richiamava principalmente lo sviluppo, ma l'annuncio del Vangelo. Troviamo nella storia numerosi esempi di missionari che hanno raggiunto popoli prosperi, di una prosperità culturale, o sociale, o economica, o tutte insieme. Ed anche quando si raggiungevano popoli materialmente poveri e ci si adoperava per il loro sviluppo, si considerava che la povertà più profonda era quella spirituale, l'ignoranza della "verità tutta intera". I frammenti, o i "semi" non sono sufficienti: occorre che il seme produca il suo albero ed il suo frutto. Solo allora lo sviluppo è completo ed può persino essere duraturo e camminare sulle proprie gambe.
Nelle scorse settimane ho vissuto la GMG da lontano, restando al mio posto. Ho seguito gli interventi del Papa ed ho avuto accesso a testimonianze dirette di partecipanti, inclusi alcuni amici. Non ho fatto l'esperienza del solleone e del temporale, ma nel luogo dove vivo non mi mancano.
Alla fine di quei giorni intensi non riuscivo a reprimere il desiderio di partecipare al mandato che il Papa ha dato ai giovani. Io, "missionario", come posso intensificare la lotta alla dittatura del relativismo? Un missionario dovrebbe offrire e rafforzare la fede cattolica.
È ovvio che la fede è un dono, e che esso non può essere imposto. Come non si può imporre ad alcuno di corrispondere all'amore: non sarebbe amore, non sarebbe fede. Un battesimo forzato, o ricevuto in vista di qualche vantaggio economico o sociale, è immorale ed invalido, perché non ha il libero consenso di chi lo riceve.
I fedeli di altre religioni sono oggi più consapevoli della loro identità, spesso anche sotto la spinta del lavoro di promozione svolto dai missionari e dello studio di accademici cristiani. Noi cattolici, dal canto nostro, viviamo un più diffuso apprezzamento delle varie tradizioni religiose dell'umanità. Il risultato da ambedue le parti, positivo, è il rifiuto di ogni conversione che non sia sincera e genuina.
Molto spesso l'effetto di questi sviluppi è la rinuncia all'annuncio del Vangelo. Non si offre più la fede.
Due episodi esemplificativi.
Incontro un sacerdote, parroco di una parrocchia numerosa, piuttosto povera, ma abbastanza vivace. Chiedo il suo benestare a che alcuni giovani della parrocchia partecipino ad un programma di formazione nella cui organizzazione sono coinvolto. Il benestare mi viene dato all'istante, con calore. Bene. Poi arriva la spiegazione: «Io incoraggio i miei fedeli ad andare dovunque possano trovare quello che cercano per la loro crescita spirituale. Se trovano quello che cercano in una moschea, vadano tranquillamente; se lo trovano in un gruppo protestante, li seguano pure».
In un'altra occasione entro nel recinto di una cattedrale. Incontro un sacerdote della zona. Vedo che ha appena finito di parlare con una persona che conosco: ha un'ottima reputazione, non è cristiana, ha un alto livello di istruzione e consapevolezza delle cose del mondo, si è mostrata ripetutamente interessata alla fede cattolica, e nulla permette di pensare che le sue ragioni che non siano genuine. «Quella signora - mi aggiorna il sacerdote - mi chiedeva di essere battezzata. L'ho scoraggiata, le ho spiegato che non è necessario: è sufficiente che viva bene secondo i dettami della religione in cui è stata educata, e che segua la sua coscienza».
Purtroppo questo modo di pensare è molto comune. Non mi stupirebbe se qualche lettore si stesse chiedendo cosa c'è di male in quelle risposte, oppure stia già archiviando il mio nominativo nella cartella "fondamentalisti".
Potrei fare numerose considerazioni, sono lì che spingono perché le lasci uscire dalla tastiera. Faccio invece una confessione: io stesso, fino ad alcuni anni fa, avrei detto e fatto cose simili ai due sacerdoti di cui sopra, i quali – lo so bene – hanno agito con le migliori intenzioni. Perché? Perché, sebbene nessuno abbia dato istruzioni esplicite, quell'atteggiamento relativista ("tutto va bene", "Dio è lo stesso per tutti", ecc.) andava per la maggiore tra noi cattolici.
Ed è ancora così, sebbene si vedano i segni di un cambio di direzione. Mi vengono in mente vari amici italiani che, fino a qualche anno fa, pensavano in quello stesso modo. Ora, anche a ragione del fatto di essere stati esposti all'immigrazione, sono più decisi nel tracciare i confini della propria identità di fede.
Anch'io, durante gli anni passati, ho fatto i miei passi. Ripensando al mandato del Papa ai giovani, vedo due modi concreti per dare una mano: 1) continuerò a studiare la mia fede per farla uscire da quei confini angusti in cui il relativismo l'ha chiusa e resa innocua; 2) condividerò questo mio cammino di ricerca con tutte le persone che mostrano un qualche interesse. Non siamo in pochi. Sono tante le persone che hanno iniziato a porsi queste domande. Da qualche tempo questa condivisione diventa sempre più proficua.
La fede cattolica è il tesoro più prezioso dell'umanità - anche se mi sembra che l'Unesco non l'abbia mai inserita tra i "patrimoni" da difendere. Io che l'ho ricevuta non ho diritto di tenerla per me. La posso scoprire, conoscere, gustare, vivere; ma anche offrire, come un dono. Se la considero il mio bene più prezioso, non è possibile che non desideri condividerla con i miei amici, con rispetto. Se non desidero offrirgliela, allora o 1) la mia fede non m'importa poi un granché; oppure 2) i miei amici non m'importano poi un granché.
Occorre guadagnarsela, la qualifica di missionario, lo vedo bene.
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