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Dare per scontato che siano in corso cambiamenti climatici anomali (non gli andamenti ciclici e le variazioni di sempre), che ne sia responsabile l’uomo (per la prima volta nella storia del pianeta), che consistano in un aumento progressivo e costante delle temperature (“riscaldamento globale”) a meno di evitare le attività umane che provocano il fenomeno e, infine, che gli effetti di tale fenomeno siano tutti negativi: questi i presupposti su cui si basano decine di documenti preparati in vista della conferenza di Copenhagen del prossimo dicembre durante la quale si dovrà decidere il dopo Kyoto.
Facendo propria la teoria del global warming di origine antropica, le Nazioni Unite si apprestano a chiedere che i paesi più industrializzati, i G8, mettano a disposizione ogni anno da 500 a 600 miliardi di dollari per salvare dalla catastrofe i paesi poveri. Bisogna evitare a qualsiasi costo l’«abisso in cui il Pianeta sta precipitando», ha detto il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon intervenendo a Ginevra il 3 settembre alla terza “Conferenza mondiale sul clima” dell’Organizzazione meteorologica mondiale: “Abbiamo scatenato forze potenti e imprevedibili, non possiamo permetterci il lusso di progressi limitati, non possiamo fallire”.
La ragione per cui spetterebbe ai paesi più industrializzati farsi carico – “a qualsiasi costo” – dei danni causati dai cambiamenti climatici ai paesi poveri è che si attribuisce alle loro attività produttive e ai loro consumi la quasi totalità delle immissioni di sostanze inquinanti nell’atmosfera.
In realtà, ammessa l’origine antropica dell’eventuale global warming, dovrebbero impegnarsi a combatterlo anche, ad esempio, India e Cina: ma alla fine di agosto il ministro indiano delle foreste e dell’ambiente Jairam Ramesh si è incontrato a Pechino con il suo omologo cinese per discutere una linea comune che, a quanto pare, consisterà nell’accusare le maggiori economie mondiali di non aver ridotto a sufficienza le emissioni di CO2 e nel rifiutare di attuare una radicale riduzione dei gas inquinanti dagli inevitabili, gravissimi effetti economici negativi.
È superfluo ricordare che qualsiasi strategia ambientale di portata planetaria, per avere successo, richiede per forza l’adesione di India e Cina: perché sono entrambe potenze industriali emergenti e perché oltre un terzo della popolazione mondiale vive in questi due paesi.
È altrettanto superfluo, o dovrebbe esserlo, osservare che è inesatto definire “poveri” - per colpa altrui per giunta - e quindi meritevoli di perpetui interventi di ordinaria assistenza e di ulteriori contributi d’emergenza, la maggior parte dei paesi africani e asiatici che abbondano di risorse naturali preziose: se i loro abitanti sono poveri è a causa di guerre, dittature, corruzione e malgoverno che sprecano e dirottano in mano delle leadership di volta in volta al potere ricchezze immense. La Nigeria, ad esempio, per decenni è stato il primo produttore di petrolio dell’Africa subsahariana (scavalcato nel 2008 dall’Angola) e lo Zambia dagli anni 60 è tra i 10 maggiori produttori mondiali di rame. Ciononostante, il 70% dei nigeriani vive con meno di un dollaro al giorno e il 93% con meno di due, il 64% della popolazione dello Zambia vive con meno di un dollaro al giorno e l’87% con meno di due.
Difficilmente però questi fatti verranno evidenziati alla conferenza di Copenhagen che sembra avviata a trasformarsi, come tante altre iniziative promosse dalle Nazioni Unite, in una ennesima occasione per attaccare i paesi più industrializzati e in particolare quelli occidentali: e non soltanto sul piano economico, ma anche su quello dell’immagine perché incolpare l’Occidente di un global warming di origine antropica dalle conseguenze disastrose per il resto del mondo innocente significa infatti aggiungere un motivo di risentimento e di disprezzo in più a un elenco già lungo di “colpe” che concorrono a far apparire l’Occidente come la peggiore delle civiltà create dall’uomo.
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