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RAGAZZINE COSTRETTE CON LA FORZA A SPOSARSI... NON STIAMO PARLANDO DELL'ARABIA SAUDITA, MA DELL'ITALIA
Ecco i frutti dell'immigrazione sregolata nel nostro Paese: molte cedono alle violenze, altre si suicidano, altre si ribellano ai genitori, ma devono vivere nel nascondimento cambiando città
di Lorenzo Galliani
 

«Mio padre ci ha detto: andate dove volete, anche dall'altra parte del mondo. Io vi trovo. Sarebbe capace di uccidermi? Credo di sì». Nel racconto di una giovane pakistana, nel rapporto "Per forza, non per amore" dell'associazione "Trama di Terre", c'è il dramma vissuto dalle vittime dei matrimoni forzati.
Molte cedono a pressioni e violenze, sottomettendosi a un marito non voluto e a un futuro di infelicità; altre si ribellano ai genitori, fuggendo da tutto e da tutti: anche dagli affetti, perché rimanere nella stessa città può essere pericoloso, quando per amore della libertà si è diventati, agli occhi del padre-padrone, un ramo secco da tagliare.
I 'mai più' gridati da una comunità scossa dall'uccisione di Hina, sei anni fa, non sono bastati: nel 2010, in Italia, si sono contati 8 omicidi per il rifiuto alle nozze combinate. Altre donne e ragazze, stremate dalla continua pressione, arrivano a togliersi la vita. «Ho incontrato minorenni disperate convinte che l'unica alternativa al matrimonio non voluto fosse il suicidio – racconta l'avvocato Barbara Spinelli, che collabora con Trama di Terre. – Aggrappandosi all'aiuto dei loro insegnanti, sono riuscite ad attivare un percorso di assistenza, fuggendo dai padri. Per poche che ce la fanno, però, ce ne sono tante che entrano in un incubo che durerà tutta la loro vita. Spesso sono portate nel loro paese con l'inganno, con la scusa di una vacanza, e si ritrovano dopo pochi giorni a essere mogli di uomini che non avevano mai visto. Più vecchi di 20 o 30 anni, o appartenenti alla stessa famiglia, con rischi di malattie».
Ma quante sono le 'Hina' che soffrono oggi? La Svizzera ha stimato 17mila matrimoni forzati all'anno nel suo territorio; mentre le autorità italiane, spiega l'avvocato Spinelli, «alla 49esima sessione del Cedaw (Convenzione per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne) delle Nazioni Unite, hanno affermato che 'i dati sui matrimoni precoci e sui matrimoni forzati non vengono raccolti perché si tratta di una pratica rara in Italia, come negli altri paesi europei'». Così, l'unico censimento resta quello di Trama di Terre, che nel 2011 contò 33 casi di matrimoni forzati nella sola Emilia-Romagna, di cui 10 in famiglie marocchine e 7 pakistane.
Ma le violenze subìte e la paura di non essere protetti, oltre all'eventuale presenza dei figli, frenano il desiderio di cambiare vita. Per questo il sommerso è altissimo: portarlo a galla si può, ma servirebbero ben altre indagini; sulle famiglie immigrate che vivono la frattura tra due generazioni (i genitori attaccati alle tradizioni, i figli che hanno scoperto in Italia il valore della libertà di scelta), e sui ricongiungimenti familiari: «Almeno il 30% di quelli che riguardano alcuni paesi è frutto di matrimoni forzati – va avanti l'avvocato Spinelli – e il problema è che spesso viene etichettato tutto come una 'questione culturale', quando invece si è in presenza di una violazione dei diritti umani ». Serve una maggiore sensibilità: quella richiesta dalla 'Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne', che prevede – per i 17 paesi firmatari – l'introduzione del reato di matrimonio forzato (già presente in alcuni Stati) e l'adozione di misure legislative per consentire l'annullamento delle nozze senza che i costi siano a carico della vittima. Rashida Manjoo, relatrice speciale dell'Onu per la 'Violenza contro le donne', è stata chiara: «L'attuale situazione politica ed economica dell'Italia non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambini in questo paese». Considerare il dramma dei matrimoni forzati come una questione che riguarda solo le comunità immigrate rischia di essere il primo passo verso il fallimento del processo di integrazione.

 
Fonte: Avvenire, 12/04/2012