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Eva Cantarella è una rinomata studiosa del mondo greco e romano, autrice, tra l'altro, de "L'ambiguo malanno", in cui viene affrontata, come recita il sottotitolo, la "condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romana". In questo testo risulta chiara la condizione di profonda inferiorità della donna nel mondo pre-cristiano. Basti pensare alla visione di Platone e di molti greci, secondo cui "il rapporto omosessuale è quello nel quale l'uomo greco esprime la sua parte superiore, la sua intelligenza, la sua affettività al livello più alto". L'omosessualità greca, spiega la studiosa, fu "il fatto culturale che rafforzò la marginalizzazione delle donne e la loro reclusione nella sfera della famiglia. Per l'uomo greco, che viveva il rapporto omosessuale come il luogo privilegiato delle scambio di esperienza e che in esso trovava risposta alle sue esigenze più alte, considerare la donna come adibita ad un compito esclusivamente biologico, fu estremamente facile". Si può immaginare una forma di misoginia più evidente del ritenere che l'unico vero rapporto "nobile ed educativo", per un uomo, sia quello con un altro uomo?
Cantarella continua ricordando che i greci "consideravano lecita la prostituzione femminile, mentre punivano come reato quella maschile". Nelle ultime pagine dedica invece brevi considerazioni all'avvento del cristianesimo. Benché riconosca che la "predicazione di Cristo agì in profondità, portando innovazioni radicali nel rapporto tra i sessi", soprattutto con l'introduzione del "matrimonio monogamico ed indissolubile", cioè paritario, e, per la prima volta, libero, l'autrice non si stacca del tutto, in queste pagine, da una certa vulgata che ha sempre svilito il Medioevo.
In questo modo, però, finisce per lasciare inspiegato il fatto che mentre le donne, nel mondo antico, non fanno storia, dall'avvento del cristianesimo in poi, divengono decisive in mille ambiti della società, non ultimo quello del potere.
Ci viene allora in soccorso uno dei più migliori medievisti italiani, Lodovico Gatto, con il suo "Le grandi donne del medioevo": 500 pagine di ritratti di affascinanti figure di regine, di religiose, di intellettuali, in generale di donne, del Medioevo cristiano. Figure trascurate da una storiografia, spiega Gatto, troppo influenzata dai clichè femministi e dalle semplificazioni manichee di certe visioni pigre o ideologiche. In verità, proprio la media aetas è stato "il primo periodo storico" in cui le donne, come molti uomini, hanno vissuto una nuova "emancipazione culturale e pure sociale", innescata dalla visione cristiana di Dio e dell'uomo. Non bisogna dimenticare, infatti, che il culto di Maria, madre di Dio, nobilitò il genere femminile intero, mentre "a chi ricorda che accanto alla madre di Dio campeggiò allora l'immagine di Eva, la peccatrice, va risposto che l'essenza del cristianesimo sta proprio nello spirito di redenzione che ne costituisce la base; ed Eva, quindi, fu intesa più come un pericolo da evitare che come una macchia indelebile e causa di eterna dannazione" (pericolo che Eva stessa evitò, se è vero che la Chiesa la ha sempre annoverata tra i salvati).
Come la Cantarella, anche Gatto non può non sottolineare che la visione biblica e l'opera della Chiesa agirono soprattutto nel conferire all'uomo e alla donna pari dignità "nel vincolo matrimoniale e nella vita familiare". In effetti non ci si pensa abbastanza, ma la lotta al divorzio altro non fu, in termini sociali, che l'emancipazione della donna dalla spada di Damocle del ripudio, cui nel mondo antico era molto spesso sottoposta, mentre la condanna dell'aborto favorì un maggior rispetto della donna, perché rese anche il maschio responsabile di ogni gravidanza e di ogni vita, e limitò fortemente un motivo di alta mortalità femminile.
Per concludere farei due esempi, tra i tanti possibili, di cosa significò il cristianesimo per le donne, soffermandomi sulla purezza, virtù eminentemente cristiana. Il primo: la Chiesa, lungi dal favorire la prostituzione femminile, "sacra" o meno che fosse, propria di tante religioni e società antiche, la condannò come dissacrazione della donna. Usando, nello stesso tempo, verso le prostitute, la stessa benevolenza di Cristo, che aveva salvato la adultera dalla lapidazione. Accanto all'adulterio femminile, poi, condannò, parimenti, quello maschile, minando così l'idea secolare per cui l'uomo, in campo sessuale, gode di ampie "libertà". Il secondo esempio: in molte culture non cristiane, come ricorda Marzio Barbagli nel suo "Congedarsi dal mondo", la donna violentata è spesso considerata in qualche modo colpevole anch'essa: "nell'antica Roma non si faceva alcuna distinzione fra adulterio (femminile) e stupro, perché si riteneva che questo rapporto avesse sempre e comunque un effetto contaminante sulla donna sposata, sia che fosse consensuale sia che fosse dovuto ad un atto violento". Di qui l'esistenza, ancora oggi, in certe culture, della lapidazione per donne violentate (si ricordi il caso recente della nigeriana Safiya); di qui l'usanza di molte donne "disonorate", dall'antica Roma alla Cina, antica e contemporanea, di suicidarsi.
Fu sant'Agostino, nel solco della dottrina cattolica, a condannare tale consuetudine, negando che lo stupro "facesse perdere l'onore a una donna e dunque la riempisse di vergogna". Per Agostino infatti "se una donna subiva violenza, poteva perdere l'integrità del suo corpo, la sua verginità, non la sua castità"!
Per questo invitò le donne a non sentirsi affatto colpevoli, imponendo con la sua autorità, nella cultura di allora, questa innovativa distinzione: "Strano a dirsi, erano due (violentatore e violentata, ndr) e uno solo commise adulterio".
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