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Sono in aumento le madri surrogate che nei paesi del Terzo Mondo vengono reclutate per offrire i loro uteri alle coppie omosessuali. A rivelarlo è Il Foglio di oggi che riporta l'indagine dell'osservatorio internazionale BioEdge. Il portale bioetico ha domandato per iscritto a una serie di cliniche indiane, ma anche nordamericane, quanto l'equiparazione legislativa del matrimonio gay a quello naturale (e relative procedure di adozione) stia influenzando il fenomeno della maternità surrogata. La risposta dei responsabili delle cliniche segnala la crescita del fenomeno «fra le donne bisognose nei paesi in via di sviluppo che si accingono a lavorare per coppie gay in cerca di offerte low cost». Con l'India in testa perché «qui i costi ammontano a un quinto rispetto a una maternità surrogata negli Stati Uniti o in Europa».
Si legge, ad esempio, l'ammissione del direttore della clinica della fertilità di Chennai, il dottor Samundi Sankar: «Sì abbiamo un numero consistente di gay che visitano la nostra clinica e abbiamo notato l'incremento delle richieste da parte di coppie omosessuali da quando le loro unioni sono riconosciute dagli Stati». Commenti simili giungono anche dalle cliniche occidentali: Jeffrey Steinberg, direttore dell'Istituto di fertilità di Las Vegas e di Los Angeles, conferma che nelle cliniche per la fecondazione assistita negli Stati Uniti «sta emergendo un trend prevedibile. Da quando sono stati legalizzati i matrimoni gay siamo stati sommersi dalle richieste di donatori di ovuli e di maternità surrogate».
In effetti, già nel giugno scorso, l'incremento delle donne indiane disposte a sottoporsi al trattamento era balzato alle cronache dopo la morte di una di loro. Premila Vaghela, la donna che all'età di 30 anni, dopo ripetuti trattamenti ormonali, non era riuscita a concludere la gravidanza morendo prima di partorire. Il quotidiano inglese The Guardian, fra i pochi a raccontare la morte della Vaghela, aveva sottolineato che la donna era solo una delle tante, riportando i numeri di un'industria che solo in India fattura ogni anno più di 2 milioni di dollari. Le cifre si aggirano intorno ai 25 mila parti di bambini indiani già nati tramite fecondazione artificiale da madri surrogate. E parlano di cliniche che si diffondono sopratutto nelle parti più povere del paese, dove si trovano donne disperate e disposte a tutto a causa dell'indigenza.
La metà dei bambini partoriti in questo modo è destinata a coppie occidentali. Normalmente, poi, queste donne sono sottoposte a infiniti cicli ormonali che le distruggono sia psicologicamente sia fisicamente, senza contare che la maggioranza di loro viene sottoposta a taglio cesareo, così da far coincidere il parto con l'arrivo nel paese della coppia adottiva.
Come rimedio, alcuni giornali occidentali, riportando quasi imbarazzati la notizia, hanno incolpato la mancata «regolamentazione del mercato riproduttivo». Non si capisce, però, come sia sostenibile una posizione che mentre parla di argini legislativi alla maternità surrogata accetta come incontestabile il principio per cui il diritto ad avere figli è da considerarsi assoluto, al di là del sesso e degli impedimenti della coppia.
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