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Dunque, diciamo subito che avrei voluto scrivere questo pezzo firmandolo con uno pseudonimo, nel timore che potesse capitare sotto agli occhi, per dire, di mia madre, o di molte altre persone della sua generazione, persone vissute quando in alcune case - nella mia di certo - ci si chiedeva: “che dici, oggi ci possiamo permettere di comprare il giornale?” Mia madre al vedermi pontificare parlando di sobrietà avrebbe un attacco di risa, ed effettivamente anche io ho qualche timore a salire in cattedra.
Veniamo da anni in cui si consumava con tutt’altro stile da quello di oggi, e per la maggior parte di noi parlare di crisi è comunque parlare di una libertà nel comprare le cose impensabile per le generazioni precedenti. Alla bisnonna dei miei figli è quasi impossibile fare un regalo, perché lei risponde sempre “ce l’ho già, grazie, risparmia i soldi”. Un vestito? Ne ha due: uno per uscire, uno per stare in casa. Un cappotto se fa freddo, uno scialle se fa caldo. Un paio di scarpe per l’estate, uno per l’inverno. Fine dei possedimenti.
Noi, invece, rispetto a persone nate ai primi del ‘900 abbiamo fatto una rivoluzione copernicana: non usciamo più a cercare una cosa che ci serve, ma diamo un’occhiata per vedere se ci sia qualcosa che ci possa piacere. E, parola mia, c’è sempre, almeno per quanto mi riguarda: potrei fare acquisti anche in un negozio di articoli per fumatori (non fumo, ma con gli scovolini morbidi e colorati per pulire le pipe si possono legare i capelli).
E se per quanto riguarda me stessa contengo severamente le mie brame di possesso (ma qualcuno per favore mi spieghi comunque perché quella casacca di paillettes verde petrolio sia finita nel mio armadio), con i miei figli mi è molto più difficile.
Il mio cuore di mamma si intenerisce alle loro richieste, e questa è la spiegazione nobile. Poi c’è la parte vigliacca: a volte ho la tentazione di usare i regali per comprarmi da parte loro la disciplina, l’obbedienza, per contrattare ignobilmente (se mi lasciate dormire vi compro... se venite senza fare storie vi compro...). Non c’è bisogno di essere una madre modello, né di avere letto trattati di psichiatria infantile per capire che questo non si fa, è una gravissima violenza fatta alla dignità dei bambini. Significa in qualche modo dire loro “tu non sei capace di fare una cosa buona, giusta, corretta; se ci riesci ti do un premio”. Significa svalutarli, e farli entrare in una logica del ricatto, della mercificazione, del “faccio qualcosa solo se mi conviene”; significa togliere loro il diritto ad avere genitori autorevoli ai quali obbedire semplicemente perché sì, punto e basta, che è una condizione estremamente rassicurante per dei bambini.
Dopo avere ammesso quanto sia difficile anche per me, che pure avrei molti strumenti per valutare la situazione, posso dire che trovo delirante quanto vedo intorno a me. L’invito a comprare bombarda i bambini da ogni dove. Le edicole e i negozi di giocattoli, per cominciare, sono invase da quelle che a casa chiamiamo “le bustine”, cioè giochini a sorpresa chiusi in sacchettini che non ne lasciano vedere il contenuto. Animali, pupazzetti, bamboline, elastichini, fermaglietti, gioiellini, macchinine, adesivi, tatuaggi e via dicendo, oggetti dal prezzo accessibile ma comunque spropositato rispetto al valore. Regalini ai quali troppo spesso i genitori di oggi indulgono, a volte anche senza un motivo, a volte anche tutti i giorni. Così, tanto per offrire una piccola gratificazione immediata. Immediata ed effimera: per la mia esperienza il nuovo, amatissimo gioco non supera la nottata. Se non si rompe nel tragitto verso casa viene sicuramente dimenticato insieme a tutte le altre cose, mescolato, perduto, confuso, e la mattina dopo difficilmente se ne ricorda l’esistenza. Una settimana dopo l’acquisto si perde nella preistoria, ed è tempo di un altro regalo.
Così insegniamo ai bambini che cercare sempre la gratificazione immediata è un buono stile di vita, è qualcosa di tutto sommato se non auspicabile, almeno accettabile, Capovolgiamo così l’insegnamento fondamentale che possiamo lasciare loro in eredità, e cioè che la vita è un lungo lento progressivo lavoro su di noi, per passare dalla vita tutta secondo gli impulsi primari, che è quella dei bambini, a una vita davvero adulta, cioè di chi è capace di mettere una croce sopra ai propri desideri per dare la vita agli altri. È vero che l’insegnamento è progressivo, che il lavoro è lungo, che si farà, ma la direzione da imprimere andrebbe detta chiaramente da subito, e, come si sa, i bambini non ascoltano le parole ma i gesti, la vita.
C’è poi un altro aspetto non trascurabile. I bambini di oggi, sommersi dagli oggetti, ma anche dagli stimoli, da quello che vedono, sentono, dalla marea di informazioni (in senso lato, ci metto anche i film, la tv, la rete) hanno troppe cose da gestire, e non ce la fanno. Sono spesso distratti, incapaci di mantenere da soli, con puntualità e metodo, gli impegni; anche semplicemente di tenere in ordine i loro giochi, che spesso sono troppi.
Fra l’altro è difficile affezionarsi davvero profondamente a un oggetto se il giorno dopo ne arriva un altro, e poi un altro e poi un altro ancora.
Eppure è difficile tenersene alla larga: i regalini sono in agguato ovunque, nei fast food, negli ovetti, nei gelati. Anche alle feste degli amichetti è invalsa l’usanza di distribuire regalini agli invitati, e a volte, lo confesso, a me è capitato che i miei figli, invitati, ricevessero un regalo più grande di quello che avevano portato al festeggiato.
Quanto alle feste, lasciatemi accennare all’altra piaga che è ormai onnipresente: l’animatore. L’animatore presidia quasi tutte le feste dei bambini, ai quali, sotto l’apparenza di una persona forzosamente allegra e amichevole, viene comunicato, secondo me, un altro messaggio negativo: tu non sei capace di organizzarti da solo con i tuoi amici, non ti sai divertire se non ci sono io che ti dico come si fa. Inoltre rischi anche di darmi fastidio, se ti metti a fare quello che ti salta per la testa: adesso segui questo tizio che ti fa fare dei balletti, dei giochi, che decide quando si mangia, quando si scartano i regali, quando si canta.
Posso affermare con orgoglio di non avere mai chiamato un animatore, casomai, come dice un mio amico padre di sei figli, un ri-animatore: qualcuno in grado di fare la respirazione bocca a bocca a torme di ragazzini spompati dalle corse e dalle partite di pallone o di nascondino o di acchiapparella. Ragazzini lasciati liberi, eventualmente, anche di annoiarsi, di non divertirsi, di passare qualche minuto improduttivamente, senza essere intrattenuti, organizzati, stimolati. Magari anche di litigare, di fare sanamente a botte, ogni tanto, se serve, evitando possibilmente spargimenti di sangue che rendano necessarie protesi di arti.
I bambini, i ragazzi, non hanno tanto bisogno che noi ci occupiamo di loro, ma piuttosto hanno bisogno che noi chiediamo loro di occuparsi di qualcosa: hanno bisogno di sentire che sono davanti a una sfida grande, la vita eterna, ma che possono farcela, perché noi per primi ci fidiamo di loro. Non li vogliamo solo e sempre gratificati, pasciuti, intrattenuti, organizzati. Perché per noi sono preziosi come diamanti, e non abbiamo paura di farli scontrare con le durezze della vita. I diamanti sono più duri di qualsiasi altra cosa, e ce la faranno, perché Qualcuno veglia su di loro.
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