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No, l’introduzione della Felicità Interna Lorda proprio non ci piace. Il nuovo strumento di indicazione del benessere, proposto dal presidente francese Nicolas Sarkozy che allo scopo si è avvalso del contributo di 25 economisti di chiara fama, puzza troppo di ideologia.
L’obiettivo dichiarato di Sarkozy è quello di superare il PIL (Prodotto Interno Lordo) come indicatore per lo stato di salute di un Paese, nella convinzione che il benessere di una società non si possa misurare soltanto con il conto in banca. In fondo è una vecchia critica, tanto che il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) già da anni propone l’Indice dello Sviluppo Umano (ISU) che integra il PIL con altri indicatori quali l’alfabetizzazione e l’aspettativa di vita.
Il progetto di Sarkozy introduce tutta un’altra serie di indicatori che chiamano in causa la «qualità della vita», e cioè il tempo libero, la qualità dei servizi pubblici, i servizi che ci si rende all’interno di una famiglia, le concentrazioni di gas serra, la tutela dell’ambiente e così via.
Cosa c’è di male in tutto questo? E’ presto detto.
Si può certamente criticare il PIL o, meglio, il fatto di affidarsi quasi esclusivamente a questo indicatore quando si parla di sviluppo. Ma rimane il fatto che il PIL è e rimane soltanto un indicatore economico, in grado di misurare la crescita di un Paese. E per questo si affida a una serie di parametri oggettivi. Si può discutere se sia auspicabile crescere del 2 o del 10% l’anno, se sia meglio la crescita 0 o addirittura la decrescita, ma il dato del Pil resta la misura oggettiva di un determinato aspetto della società, in questo caso l’economia.
La “Felicità Interna Lorda” invece – come è stato ribattezzato l’indice proposto da Sarkozy – introduce una serie di parametri che di oggettivo non hanno nulla. Prendiamo il “tempo libero”. Come lo misuriamo, in ore e minuti passati fuori dal luogo di lavoro? In questo caso la disoccupazione è il massimo del benessere. Lo misuriamo in termini di attività scelte? E chi può giudicare se sia meglio portare a spasso il cane o accudire i nipoti? E chi è più felice, colui che passa la serata a giocare a carte con gli amici o chi si dedica alla collezione dei trenini? E’ chiaro che la “misura” del tempo libero è un indice necessariamente soggettivo che dipende dai valori di chi misura. Ciò vale per tutti gli altri parametri.
Estremamente preoccupante è il fatto che possa essere lo Stato a decidere questa scala di valori, per tutti. Addirittura Sarkozy ha espresso l’ambizione che questo diventi un indice adottato da tutti i paesi del mondo.
A rendere ancora più seria la cosa è il successo e il plauso all’iniziativa che si può leggere sulla stragrande maggioranza della stampa occidentale. Cosa che colpisce anche di più se si considera di quanta poca popolarità abbia invece goduto - e goda - l’ISU. Il motivo è semplice: in Occidente, e soprattutto in Europa, si è ormai affermata una cultura che odia lo sviluppo economico, che lo giudica il “male assoluto”, che vagheggia di ritorni a una non meglio precisata “era felice” quando l’uomo viveva in armonia con la natura. Basterebbe vedere il moltiplicarsi di libri e siti che invocano la decrescita economica (la decrescita “felice” o “serena” viene definita), l’uscita dall’economia, l’esaltazione dell’economia di sussistenza. Ed elogiano l’ozio, ovvero la riduzione del lavoro al minimo (alcuni teorizzano un’ora alla settimana) per potersi dedicare soltanto alle proprie attività preferite.
E’ un’ondata utopistica che coniuga il massimo dell’individualismo (farsi gli affari propri) con il massimo del totalitarismo (lo Stato che decide i valori per tutti).
L’iniziativa di Sarkozy ha avuto un’accoglienza straordinaria perché intercetta questa cultura ormai dominante, che ha già prodotto degli effetti politici, di cui l’adozione universale del concetto di “sviluppo sostenibile” è l’esempio più eclatante. E alla formulazione di una "Etica globale" alle Nazioni Unite stanno lavorando da anni. Non a caso in nome della salvezza del pianeta gli Stati intervengono sempre di più d’autorità nelle scelte quotidiane delle persone: dal tipo di illuminazione alla scelta dei mezzi di trasporto, dalla quantità e qualità del cibo fino al numero dei figli (preferibilmente 0).
La cosa più spaventosa che ci possa accadere è uno Stato che arrivi a decidere in cosa deve consistere la mia felicità. Ora si può ben ripetere che non sono i soldi (il PIL) a fare la felicità, ma ciò non significa che a fare felici sia la povertà, come gli annuali rapporti del WWF sull’impronta ecologica vorrebbero dimostrare. E si può benissimo essere infelici pur avendo un discreto tempo libero a disposizione e una bella casetta in mezzo al verde. Al contrario, ho in mente il volto di Madre Teresa di Calcutta: il ritratto della felicità. Ma vorrei vedere Sarkozy proporre a tutte le donne di entrare nelle Missionarie della Carità.
Anche perché la felicità non è data dalle circostanze in cui viviamo, ma dal significato che alle circostanze diamo. E questo non può deciderlo lo Stato; né può deciderlo l’ONU, anche se ci fosse il consenso totale dei governi.
Per cui è molto meglio tenersi il PIL e l’ISU: indici imperfetti, da non prendersi come valori assoluti, da riformare dove è possibile, ma almeno non ci impongono la felicità di Stato.
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