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Caro don Giorgio De Capitani, vorrei, attraverso Avvenire, indirizzarti questa lettera aperta, in ordine alle tue recenti dichiarazioni nei confronti dei nostri caduti a Kabul. Io sono un sacerdote siciliano di 53 anni, amo la pace e non mi piace la guerra.
Per principio. Ma leggendo le tue parole di odio e di disprezzo ('mercenari') verso gli uomini in divisa morti in Afghanistan, ho sentito il bisogno di ricordarti che noi preti siamo nella Chiesa, per il mondo, la presenza di Cristo: «Dio ama tanto il mondo da mandare il suo Unigenito non per giudicare il mondo ma per salvarlo» (Gv 3,16).
Quando Gesù fu pregato di intervenire per guarire il servo del centurione, poteva dire «È un mercenario, un occupante imperialista». E avrebbe detto il vero. Invece cambiò il programma della giornata e si avviò verso la casa del 'mercenario', anzi guarì il servo (e anche su questo tu al suo posto avresti tenuto un comizio) prima di giungere a destinazione.
Ancora oggi, nella Messa, prima di accostarci alla Comunione riecheggiamo le parole del centurione «non sono degno che tu entri nella mia casa, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito». Alla fine il militare nemico del popolo si beccò un encomio solenne «hai una fede grande grande».
Nel Vangelo il mercenario è la fotocopia del Pastore. Mentre questi conosce, ama e nutre tutte le sue pecore, fino a dare la vita per salvarle dai lupi, il mercenario scappa, perché non gli importa nulla delle pecore (cfr. Gv 10). Caro fratello, non si può essere pastori, selezionando nel gregge i giusti (quelli che votano chi piace a te) e tutti gli altri: questo compete al Signore Gesù nel giorno del giudizio (cfr. Mt 25). Altrimenti rischi di diventare tu il mercenario a cui interessano solo 'alcune' pecore, disprezzando e oltraggiando al contempo tutte le altre che non la pensano come te.
La libertà dei figli di Dio ti consente, se lo vuoi, di fare il tribuno, il sindacalista, il no global, ma non ti consente di disprezzare, da prete, nessuno dei tuoi fratelli, il loro dolore, la loro dignità, il loro bisogno di costruire un futuro seppur rischiando la vita, come fanno i militari, non solo quelli di Kabul, ma tutti quelli che con una divisa proteggono te, la tua libertà, la tua professione di fede per uno stipendio di fame.
Il mio fraterno amico Pino Puglisi sapeva cosa rischiava, ma cercò fino all’ultimo di dialogare perfino coi mafiosi, per spiegare loro il male che facevano, principalmente ai loro figli. Non se ne stava a chattare, linkare, bloggare, youtubare, ma come don Mazzolari «voleva bene anche a Giuda» e ogni giorno «faceva qualcosa» per il suo gregge.
Mai una parola di odio, mai un filo di rancore verso chi ogni giorno gli faceva sapere che era sgradito, sempre benedicendo e mai maledicendo nessuno. E la mafia lo uccise. Era un mercenario? No, riscuoteva il tuo stesso stipendio dall’8 per mille ed era sempre pieno di debiti per aiutare il prossimo. Se l’è cercata? No, ma ha accettato con l’amore di Cristo Sacerdote i colpi di pistola di Cosa nostra. Non era un 'prete scomodo', era un 'prete vero'. E tu? Fraternamente.
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