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Mons. Brunero Gherardini è considerato uno degli ultimi rappresentanti della scuola romana di teologia, quella, per intenderci, cui appartennero i grandi teologi italiani del ’900 tra cui ci piace ricordare alcune figure come il card. Ottaviani e il card. Parente, mons. Piolanti e i padri Fabro, Spiazzi, Composta.
Docente emerito di Ecclesiologia ed Ecumenismo presso la Pontificia Università Lateranense, detta l’Università del Papa, mons. Gherardini ha un curriculum di pubblicazioni, anche in altre lingue, che non permette alcun breve excursus. È un teologo, un ecclesiologo e un mariologo di fama internazionale, ottimo conoscitore di Lutero e della Riforma, ma anche studioso appassionato della filosofia moderna, specie tedesca e francese.
Attualmente, fra i molti impegni, oltre ad essere canonico di san Pietro, dirige la prestigiosa rivista di teologia Divinitas, e ha l’onore di essere succeduto al Piolanti nella Postulazione della Causa del beato Pio IX.
L’ultimo lavoro di mons. Brunero Gherardini, pur affrontando un argomento molto delicato, sta ottenendo un grande successo: Concilio Ecumenico Vaticano II – Un discorso da fare (Casa Mariana Editrice, Frigento 2009), con Lettera Prefazione di mons. Mario Oliveri, vescovo di Imperia-Albenga e premessa di mons. Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista.
COME LE È VENUTA L’IDEA, MONSIGNORE, DI SCRIVERE QUESTO LIBRO?
Una premessa: ho sempre rifiutato interviste. Se faccio oggi un’eccezione, è perché son legato da stima profonda e amicizia con il prof. Roberto de Mattei, direttore di “Radici Cristiane” e perché desidero pubblicamente ringraziare il Signore per la grande accoglienza che sta riscuotendo il mio libro.
Mi domanda non quando ma come. Risposta semplice: via via che i documenti, uscendo dall’Aula conciliare, diventavano oggetto d’interpretazioni non univoche e il cosiddetto post-Concilio se ne impadroniva per darne interpretazioni spesso insostenibili sul piano teologico e su quello storico.
Tale ho sempre considerato, ancor prima che il Ratzinger d’allora ne parlasse, l’interpretazione di un Concilio di rottura, e quindi di una nuova Chiesa, o se si vuole della vera Chiesa, finalmente alla luce del sole, come se la Chiesa dei venti secoli precedenti fosse una non-Chiesa o l’anti-Chiesa.
IL COSIDDETTO “SPIRITO DEL CONCILIO” SEMBRA ESSERE IL GRANDE NEMICO DELL’ERMENEUTICA DELLA CONTINUITÀ TRA TRADIZIONE E RIFORME DI CUI È FAUTORE PAPA RATZINGER. MA QUESTO FAMOSO SPIRITO CONCILIARE, QUASI MITICO “UNGEIST”, NASCE DA UNA LETTURA IMPROPRIA DEI TESTI POI APPROVATI, COMPIUTA DA MINORANZE ERETIZZANTI, O DA LACUNE E AMBIGUITÀ PRESENTI NEI TESTI?
Come certamente anche lei sa, lo “spirito del Concilio” fu quello al quale, purtroppo in modo declamatorio, il Concilio stesso s’appellò più volte, sia richiamandosi ai precedenti Concili, sia determinando il valore dei propri documenti.
Contro questo “spirito” fu subito invocato un “contro spirito” da parte dei novatori per dare ai documenti conciliari un’interpretazione di rottura. La sua domanda vorrebbe anche sapere se questo Ungeist avesse radici nell’Aula conciliare: è noto che minoranze e maggioranze si fronteggiavano sulla base di una mal capita modernità, che alcuni fra i Padri conciliari, e loro teologi di sostegno, traducevano la dottrina di sempre in termini storicistici, sottoponendola all’immanentismo, all’esistenzialismo, al liberalismo. Da ciò le ambiguità, non moltissime ma gravi, di alcuni testi.
È POSSIBILE ED È LECITO, SECONDO LEI, CHIEDERE AL PAPA E ALLA SANTA SEDE LA REVISIONE, LA RETTIFICA O L’AGGIUSTAMENTO DEI TESTI CONCILIARI COME ESSI FIGURANO NEGLI ACTA (SOTTO FORMA DI NOTA PRAEVIA, PER ESEMPIO O SUL SENSO DI UNA PROPOSIZIONE COME NELL’AUCTOREM FIDEI DI PIO VI PER RENDERLI PIÙ CHIARAMENTE CONFORMI ALLA TRADIZIONE DOGMATICA DI CUI SI DICONO ESPRESSIONE?
Sia ben chiaro, una supplica (almeno fino a che non se ne dimostri l’irragionevolezza) è sempre possibile e lecita. La mia non chiede né revisioni, né rettifiche, ma precisazioni di senso sulla base di una discussione critica ampia e rigorosa, dominata dal riferimento costante alla forza vitale della Tradizione rettamente intesa.
La Nota praevia non è un “aggiustamento” ma l’indicazione del senso da dare al III capitolo della Lumen gentium; quanto alla Auctorem fidei, non so a quale proposizione si richiami: forse alla prima sulle “verità più importanti” o alla 67ª sulla Sacra Scrittura.
MAI COME IN QUESTI 40 ANNI POST-CONCILIARI SI È TANTO PARLATO DI PAROLA DI DIO, EPPURE MAI, FORSE, IN 20 SECOLI CRISTIANI, SI È ASSISTITO A UNA SUA MANOMISSIONE COSÌ GRAVE, UNIVERSALE E PERVASIVA.
IN CHE MODO SI POTREBBE OPERARE, ANCHE DAL BASSO, PER UNA RIAFFERMAZIONE DELLA DOGMATICA CATTOLICA INTEGRALE, CIOÈ NON ADATTATA ALLA MUTEVOLE CULTURA UMANA E LONTANA DAL PROTESTANTICO PRIMATO DELLA SCRITTURA?
Con il coraggio di riaffermare la dottrina di sempre, nel senso datole dalla fede “sub ductu Ecclesiae”.
NELLA FINALE “SUPPLICA AL SANTO PADRE” LEI, MONSIGNORE, PONE DEGLI INTERROGATIVI SERISSIMI SULLA DOGMATICITÀ DEL CONCILIO E SUL VALORE DEI SUOI ATTI. IL DIALOGO TRA LA SANTA SEDE E LA FRATERNITÀ SAN PIO X OPPURE I CONGRESSI E GLI STUDI SUL CONCILIO DA LEI PROPOSTI, IN CHE MODO POTREBBERO PORTARE AL CHIARIMENTO DOTTRINALE AUSPICATO, IN MODO CHE “L’AUTOEUTANASIA DEL CATTOLICESIMO” (DEL NOCE) VENGA A CONCLUDERSI?
I miei “interrogativi serissimi” sono un richiamo ai limiti dogmatici entro i quali il Vaticano II fu convocato e i Padri si mossero.
Se un richiamo del genere venisse oggi dal Supremo Pastore e Maestro della Chiesa universale avrebbe l’effetto di ricomporre immediatamente l’unità all’interno della stessa Chiesa.
Non appartengo alla Fraternità San Pio X ma auspico di cuore che possa anch’essa sentirsi a casa propria nella Chiesa, proprio sulla base di una comune e pacificamente recepita nozione dogmatica di Tradizione.
I congressi e gli studi che propongo, e che avrebbero un peso eccezionale se fossero promossi dalla Santa Sede, dovrebbero far piazza pulita dell’ermeneutica della rottura, sulla base della scienza e della fede di ieri, di oggi e di sempre.
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