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DIECI ANNI DALLA SCOMPARSA DI GIORGIO GABER: CHI ERA COSTUI?
Ebbe a dire ''vorrei che tutti i Vaticani sprofondassero'', ma il Gaber-pensiero resta oscuro e, come tutti i qualunquismi, scivola a sinistra
di Rino Cammilleri
 

A dieci anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber(scik: nome completo) c'è la consueta rimembranza di un uomo di spettacolo che fu famoso e or non c'è più. Succede a tutti, specialmente ai cantanti. Serve anche a far vendere qualche cofanetto con i loro successi, l'opera omnia in confezione lusso, i libri di biografie, il tutto a giustissimo vantaggio degli eredi. I giornali dedicano qualche pagina, le tivù qualche intervista e/o un collage di spezzoni. Poi, si attende il ventennale. Valendo sempre la regola del parce sepultis, cioè che dei defunti se non si può parlar bene almeno si taccia, si rischia però che quelli che non c'erano perché nati dopo vedano solo l'oleografia e non la storia. E non sappiano mai che il celebrato, ai suoi tempi, non era un fascio di luci a tutto tondo, ma aveva –come tutte le cose umane- qualche nuance. E dire, tuttavia, che la sua uscita sul Vaticano (musicale, come al solito: «...vorrei che tutti i Vaticani sprofondassero...») fu una delle sue ultime, suscitò qualche polemica ma fu, proprio per questo, ospitata in prima serata da Celentano in uno dei suoi show. Scuotemmo la testa, noi che proprio non eravamo d'accordo, e le spalle: vabbe', gli artisti, si sa, sono un po' anarchici... Il fatto è, però, che Gaber non era De André, che anarchico lo era davvero. No, Gaber non era né di destra né di sinistra. E, come tutti quelli che stanno nel mezzo, scivolava sul piano inclinato, quello, famoso, che dal qualunquismo (ci si passi l'espressione) porta a sinistra. Nessuno è in grado di riassumere, neanche oggi, il Gaber-pensiero, per il semplice motivo che non c'era. Era bravo, certo, e nessuno osa negarlo. Bravo con i testi e talvolta pure con le musiche. Soprattutto era bravo a recitare le sue canzoni. Detto questo, tuttavia, rimane la perplessità: che cosa predicava o cercava di predicare? Temiamo che la risposta sia disarmante: niente. Il suo inno più famoso e più "impegnato" aveva come ritornello: «la libertà è partecipazione». Boh. Chissà cosa voleva dire. Una nostalgia per gli antichi fueros? Per i corpi intermedi, per il potere diffuso, per la società medievale insomma? Non crediamo che il Signor G avesse tale cultura o particolare erudizione in storia delle dottrine politiche. Era un bravo uomo di teatro, l'unico che facesse show delle sue canzoni, forse l'unico in grado di farlo. Ma il cinismo (come ha detto qualcuno) o il qualunquismo (come ha detto qualcun altro) piazzano al centro. Non il centro nel senso che intendeva Hans Sedlmayr, la cui perdita è causa (dal tempo dei secoli cristiani) dei mali del mondo attuale. Ma il centro di chi si mette nel mezzo tra due parti, quali che siano. Quelle che trova e che ha sotto gli occhi. Diceva Juan Donoso Cortés che, in genere, chi si alloca super partes si ritiene superiore, chiama a giudizio tutti e sentenzia. Se, però, non è in grado di distinguere la verità dall'errore, la sua terzietà fa più danno della grandine, perché a lui non importa chi ha ragione, avendo deciso che hanno un po' di torto tutti, tranne lui. Questa posizione, come abbiamo accennato, scivola fatalmente verso sinistra, anche se il posizionato non se ne avvede (e anche se glielo dicono non ci crede). I più anziani tra noi ricordano un disco di Gaber che, non a caso, era accluso al settimanale «L'Espresso» all'indomani del rapimento-omicidio di Aldo Moro. In pieni Anni di Piombo, dunque. Era la registrazione di uno spettacolo one-man show in cui Gaber cantava che «...non basta essere ucciso da un brigatista per diventare uno statista...». In effetti, data la glorificazione post-mortem allora in atto dell'alto esponente democristiano, Gaber stava dando voce a quelli che non stimavano particolarmente l'uomo politico scomparso. I non estimatori di Moro erano trasversali agli schieramenti partitici, ma è significativo che il disco di Gaber sia finito come gadget de «L'Espresso», foglio la cui collocazione nel panorama politico italiano non è mai cambiata ed è voce di quella sinistra radical-chic che ha il suo giornale-partito di riferimento ne «La Repubblica». E' un classico esempio del fatale scivolamento di cui si diceva: un agnostico (in tutti i sensi) ha un bel collocarsi al di sopra e al di fuori. Che lo voglia o no, finisce, nella migliore delle ipotesi, in braccio a Pannella.

 
Fonte: Antidoti, 28/01/2013