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“Basta!” e “Vergogna!” sono le due esclamazioni che riecheggiano nei media italiani dopo l’ennesima tragedia in mare di un barcone stracarico di migranti africani, affondato al largo dell’Isola dei Conigli, nei pressi di Lampedusa.
La tentazione di dare la colpa a se stessi è molto forte in tutti i media italiani. Si lanciano accuse (sacrosante) contro quei pescherecci che, pur consapevoli della tragedia in atto, non hanno prestato soccorso. Le accuse non sono confermate. Se lo fossero, i responsabili devono essere individuati e puniti, perché hanno violato la legge. Si dà la colpa alle autorità italiane e ad una politica sull’immigrazione che i progressisti definiscono non sufficientemente accogliente. Ma se non fosse stato per le autorità militari locali, per le unità della marina e della guardia costiera che sono intervenute, ora la conta dei morti sarebbe molto più lunga. Non sono stati né i pescherecci, né le unità navali italiane ad affondare il barcone dei disperati. Esso è colato a picco a causa di un incendio, appiccato a bordo nell’ingenuo e tragicamente maldestro tentativo di segnalare la presenza ai soccorsi. I primi responsabili di questa tragedia sono dunque gli scafisti, rei di aver lasciato affondare la loro barca con il “carico umano” a bordo. Uno di essi, a quanto risulta dai primi rapporti, sarebbe già stato individuato fra i naufraghi.
Il barcone è salpato dalla Libia. E domandiamoci, allora, che cosa è la Libia. Il Paese, da cui arriva il grosso del flusso dei migranti nel Mediterraneo, fino al 2011 era dominato dalla dittatura di Gheddafi. Il regime, che controllava ogni movimento di terra e di mare entro i suoi confini, chiudeva però un occhio sul traffico umano degli scafisti, che potevano impunemente salpare dai suoi porti. Gheddafi usò più volte “l’arma dei migranti” per ricattare l’Italia. Quegli uomini, usati come merce di scambio, non erano libici. Erano somali, eritrei, sudanesi, etiopi, fuggiti dalle guerre civili dei loro Paesi, sopravvissuti a un lungo e pericoloso viaggio nel deserto del Sahara. Quando si parla di migrazioni, si è soliti gridare al “razzismo”. Accusa sacrosanta: la Libia, sia quella di Gheddafi che quella caotica post-rivoluzionaria, è un Paese profondamente razzista che non ha mai firmato la Convenzione sui Rifugiati. I pogrom contro gli immigrati, lo sfruttamento del loro lavoro, la persecuzione poliziesca contro persone dalla pelle di un colore diverso da quella degli arabi, erano e sono tuttora all’ordine del giorno.
Almeno negli ultimi anni di Gheddafi, in seguito alla firma, con il governo Berlusconi, del Trattato di Bengasi (2008), si era cercato di dare una regola al caos mediterraneo. Nel 2009, il governo italiano iniziò a implementare quella che fu chiamata la “politica dei respingimenti”. Non si trattava di far morire in mare gli immigrati, ma di restituirli al Nord Africa, istituendo meccanismi di cooperazione con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, a partire dalla Libia. Rispettando i principi del Trattato di Bengasi, l’Italia aveva una chance in più per chiedere il rispetto dei diritti umani in Libia. Inutile dire che questa politica è fallita ben presto. Non solo e non tanto per colpa dell’Italia, ma anche per un atteggiamento di totale condanna e ostruzionismo da parte delle istituzioni internazionali, a partire dall’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati, allora rappresentata, per l’Italia, da Laura Boldrini), pronte a lanciare una valanga di accuse contro Berlusconi e la Lega Nord, senza suggerire niente di meglio. Nel 2012, la Corte Europea ha ufficialmente condannato l’Italia, proprio per i respingimenti, a nome di un’Unione Europea che non ha una politica comune sull’immigrazione (in Spagna, a Malta e in Grecia, coi migranti, usano spesso la forza...).
Il colpo di grazia alla politica mediterranea è arrivato con la guerra civile libica del 2011 e il successivo intervento della Nato per rovesciare il regime di Gheddafi. Un’azione militare a cui l’Italia, per espressa volontà del presidente Napolitano, ha partecipato attivamente. Una volta ucciso Gheddafi, il governo Monti ha cercato, in modo molto riservato, di rinnovare la stessa politica assieme alla Libia post-Gheddafi. Il 3 aprile 2012 un nuovo accordo era stato firmato dal ministro Cancellieri con l’allora ministro dell’Interno libico Fawzi Al Taher Abdulali. Amnesty International tornò a condannare il governo italiano (c’era Monti, allora, non più Berlusconi), esprimendo preoccupazione soprattutto su un punto dell’accordo: l’istituzione di un centro a Kufra, «per garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore dell’immigrazione illegale». La cittadina del Sud libico è uno dei principali punti di approdo dei migranti e dei rifugiati provenienti da Egitto, Sudan e Ciad e diretti verso l’Europa. Secondo Amnesty, «Kufra non è mai stato un centro sanitario, né tantomeno un centro di accoglienza, ma un centro di detenzione durissimo e disumano. I cosiddetti centri di accoglienza di cui si sollecita il ripristino, chiedendo collaborazione alla Commissione europea hanno a loro volta funzionato come centri di detenzione, veri e propri luoghi di tortura. Ciò, nella situazione attuale, significa che l’Italia offre collaborazione a mettere a rischio la vita delle persone che si trovano in Libia».
Domandiamoci chi, a questo punto, trasforma i centri di accoglienza in luoghi di persecuzione: sono le milizie islamiche, che dominano il territorio libico dopo la caduta di Gheddafi. E chi ha gettato la Libia in questo caos, in cui i miliziani spadroneggiano? Anche il nostro governo, con un intervento armato “umanitario” seguito dal nulla, dal completo abbandono di un Paese nel suo difficile dopoguerra. E adesso la Libia è terra di nessuno, dove libici, migranti e persino i diplomatici (giusto ieri è stata colpita duramente l’ambasciata russa), rischiano la pelle tutti i giorni.
Ma la radice del problema non è neppure in Libia. È più profonda, nell’Africa sub-sahariana. I naufraghi di Lampedusa venivano principalmente da Eritrea e Somalia. Fuggendo, non cercavano di vivere meglio in Europa. Cercavano di sopravvivere. Perché rimanere in Eritrea e Somalia, per molti di loro, significa: morire. L’Eritrea è una dittatura retta, da 22 anni, da Isaias Afewerki. Secondo l’analisi dell’autorevole Freedom House, è uno dei 17 Paesi meno liberi del mondo. Nei suoi confini ogni libertà (politica, religiosa, civile e di espressione) viene sistematicamente repressa. Tutti i cittadini sono sottoposti a un duro servizio militare obbligatorio, che è la prima causa della fuga di massa dei giovani. Quanto alla Somalia, il suo governo controlla solo la capitale, Mogadiscio, e poco altro. Il resto è nelle mani delle milizie islamiche Shebaab (autrici del recente massacro di Nairobi) e di altri movimenti armati. Ed è così dal 1991: 22 anni di guerra civile. I responsabili di questa tragedia delle migrazioni si chiamano dunque Afewerki, milizie Shebaab e un governo somalo, provvisorio, traballante e più volte accusato di corruzione.
Una responsabilità indiretta ricade anche sull’Italia, con politiche di cooperazione e sviluppo che ottengono risultati controproducenti. Per quanto riguarda l’Eritrea, lo scorso decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero includeva anche la cessione di materiale ferroviario al regime di Afewerki. È solo un esempio, ma è significativo: spendiamo soldi per fornire infrastrutture a regimi repressivi che non puntano affatto allo sviluppo dei loro popoli. E ci scaricano addosso una valanga di fuggitivi. Per quanto riguarda la Somalia, il quadro è ancora più “grottesco”. I Paesi donatori, fra cui l’Italia, hanno regalato al governo provvisorio circa 3 miliardi e mezzo di euro in aiuti umanitari, dal 2008 ad oggi. Per ottenere cosa? La guerra civile continua, l’ordine non è affatto ristabilito, gli Shebaab appaiono più forti che mai. Dove siano finiti quei 3 miliardi e mezzo, possiamo solo immaginarlo.
Eritrea e Somalia sono solo gli ultimi esempi in ordine di tempo. Tutta l’Africa e un Medio Oriente destabilizzato dalle Primavere Arabe (appoggiate dai nostri governi) sono immensi serbatoi di profughi, nonostante le nostre politiche di cooperazione e sviluppo. O forse proprio a causa di esse. E allora, chi si deve vergognare?
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