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Non mi sono mai interessato di calcio ed è la primissima volta che ne scrivo. Le uniche partite a cui ho assistito de visu sono quelle a cui mio padre mi portava, bambino, nella speranza di fare anche di me un tifoso sfegatato come lui. Non c'è riuscito, ma già allora sentivo le urla di «arbitro cornuto!» e «arbitro venduto!» provenire da questo o quello spalto. Il più bersagliato era ovviamente l'arbitro, perché per forza di cose doveva dare di volta in volta ragione agli uni e torto agli altri. Ma non mancavano le pernacchie elaborate alla Eduardo (cfr. L'oro di Napoli), gli apprezzamenti sulle consorti dei giocatori, le valutazioni coram populo delle prestazioni mercenarie delle loro madri.
Questi, comunque, sono ricordi anni Cinquanta, quando gli «oriundi» nel calcio erano tutti sudamericani o al massimo nordeuropei. Poi sono arrivati quelli di colore, e la tifoseria si è adeguata. Ma era, è razzismo? Il razzismo è roba americana, importata in Europa insieme a tutte le altre americanate, come la cocacola, i jeans, il rock, la gomma da masticare, il politicamente corretto e il buddismo in salsa hollywoodiana. Anche il salutismo, il no-smoke, il cibo vegan, la corsetta-che-fa-bene detta jogging. Insomma, da buona periferia dell'impero facciamo, supini, quel che facevano gli ebrei (non a caso detti «ellenizzati») ai tempi di Cristo: tradurre i loro nomi in romano e, addirittura, farsi la plastica ai genitali (onde nascondere la circoncisione) per frequentare le terme e le palestre.
Ma torniamo agli stadi e al politicamente corretto. Alle elementari avevo un compagno con le orecchie vistosamente a sventola: vi lascio immaginare gli sfottò a cadenza quotidiana. Alle medie ce n'era uno col naso aquilino ed esageratamente lungo: la meno peggio delle battute riguardava quel naso-che-piscia-in-bocca. Al liceo ecco in classe uno etero ma di troppo gentile aspetto: gli davamo del «finocchio» usando il francese, la lingua dei cicisbei di corte rococò. Insomma, ognuno era preso in giro (talvolta anche pesantemente, non si nega) in base alla sua caratteristica più evidente. E anche i soprannomi erano in stile. In certi paesi della Toscana il soprannome (spesso non proprio fine) lo stampano pure sull'annuncio mortuario, unico sistema per identificare con certezza il defunto (ho visto io stesso, in provincia di Pisa, un de cuius con tanto di «detto Palle» listato in nero sotto il nome).
Giustifichiamo, dunque, i cori contro i giocatori di colore? No, certo. Ma solo alla dittatura politicamente corretta è venuto in mente di trasformarli in reati. È tipico del giacobinismo imporre giudiziariamente il regno della «virtù» di robespierriana memoria. Ora ne stavano inventando un'altra: il Milan ha rischiato di giocare con l'Udinese senza pubblico (la sentenza è stata poi sospesa) perché nella partita con la Juve si sono sentiti cori milanisti inneggianti alla «discriminazione territoriale». Cioè, quel che una volta si chiamava campanilismo e non scandalizzava più di tanto.
Nemmeno quando la neonata Lega bossiana ripristinò in grande stile il termine spregiativo «terrone» all'autorità preposta venne in mente di sanzionare tale, senz'altro deprecabile, comportamento. Ma il pensiero politicamente corretto ha questo di disgustoso: scatena un'inquisizione diffusa, un linciaggio senza garanzie costituzionali e attenuanti, una polizia del pensiero e della sua espressione che costringe tutto e tutti a pochi concetti ufficialmente ammessi. Il tifo da stadio è antico come l'uomo. Nerone dovette squalificare per dieci anni lo stadio di Pompei dopo che i tifosi locali si erano scontrati con quelli di Nocera, provocando morti e feriti (gli anni vennero poi ridotti a due per intercessione di Poppea, che a Pompei aveva la villa). Nello stadio di Costantinopoli, a Bisanzio, succedeva anche di peggio e le tifoserie dei Verdi e degli Azzurri erano non di rado capaci di deporre gli imperatori. I Palii medievali contrappongono ancora oggi non solo le città italiane ma addirittura i quartieri, e non è raro il caso che vi si finisca alle mani. Ora, non sarebbe meglio - anche per prevenire i fenomeni estremi come accoltellamenti, danneggiamenti, incendi di auto, sassate ai pullman dei giocatori, invasioni di campo, scontri con la polizia - lasciarli sfogare almeno a parole?
La moderna democrazia è riuscita, nei Paesi occidentali che l'hanno inventata, a sostituire la guerra dei cannoni con quella verbale. Se negli stadi lanciano parole, anche in forma di insulto, a nostro sommesso avviso sarebbe sempre meglio delle molotov. Gli sport di squadra, specie il calcio, non sono solo «un gioco» come sostengono le anime belle, ma sostituti incruenti della guerra: per questo eccitano gli animi. E a voler ingabbiare la guerra in un eccesso di regole si rischia quel che rischia colui che insiste nel premere un tubetto di dentifricio senza togliere il tappo. Nei secoli cristiani la Chiesa cercò di umanizzare la guerra (sapendo, realisticamente, di non poter abolirla) circondandola di norme: vietato combattere nei giorni di festa religiosa, la domenica in onore di Gesù, il sabato in onore di Maria, nella Quaresima, nella Pasqua, nelle vigilie importanti... Il risultato fu che qualcuno obbediva, qualcun altro no. E poiché il disobbediente aveva un vantaggio palmare, anche l'obbediente era costretto ad adeguarsi. Certo, alcune regole sono meglio di nessuna regola. Ma vediamo di non esagerare e di non coprirci di ridicolo con la «discriminazione territoriale» che rischiava di penalizzare un intero pubblico e di mettere una squadra prestigiosa come il Milan alla mercé di un gruppetto di incauti «discriminatori».
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