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Dieci anni fa, il 5 giugno 2004, si spegneva a 93 anni Ronald Reagan, che (per le sfide senza precedenti che fronteggiò) diversi tra biografi, collaboratori e commentatori definiscono il più importante presidente degli Stati Uniti d'America. Molti sono i suoi gesti passati alla storia, gli aneddoti, persino le battute; ma due frasi ne catturano rotondamente lo spirito, condensandone l'eredità. La passione serena con cui il 12 luglio 1987 intimò alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbačëv, abbatta questo muro!» e, a monte, la sua famosa denuncia dell'«impero del male».
Oggi sembra preistoria, ma allora l'incubo sovietico era concretissimo; e fu Reagan a dissolverlo, perseverando fedele a una precisa visione della realtà. Per lui, infatti, il senso della vita degli uomini è diventare ciò che Dio vorrebbe che ogni uomo diventasse; per questo è compito unico della politica garantire all'uomo la possibilità di scegliere: la libertà che realizza l'umanità o la spersonalizzazione che disumanizza. La libertà, cioè, o il comunismo; la libertà o lo statalismo; la libertà o l'esproprio fiscale; la libertà o la tirannia dei "pensieri deboli".
Il momento della scelta (come suona il titolo di un suo noto discorso di allora) per Reagan venne nel 1964. Alle elezioni presidenziali di quell'anno, il 3 novembre, il senatore dell'Arizona Barry Goldwater (1909-1998) cercò di ribaltare una volta per tutte il tavolo della politica remissiva, piccina piccina, asfittica; quella che alla prepotenza sovietica sapeva opporre, in politica interna e in politica estera, soltanto una rosa di misure parasocialistiche incapaci di sfondare, che aveva smarrito il senso della nazione, che non avendo più memoria non sapeva immaginarsi il futuro. Lo fece lanciando una sfida fatta di princìpi non negoziabili e di libertà economica, cioè orgogliosamente conservatrice, e perse clamorosamente. Ebbe contro nemici implacabili, e subì pure il fuoco cosiddetto amico, ma a raccogliere il suo testimone, mentre molti già abbandonavano la barca, trovò quel giovane Reagan con Hollywood alle spalle e la politica nel cuore.
Ci vollero 16 lunghi anni di semina, predicazione e lavoro duro sul territorio, durante i quali l'ex giovane Reagan si affermò sul proscenio nazionale guidando uno degli Stati più popolosi, vasti e ricchi (e di media piuttosto progressisti) dell'Unione nordamericana, cioè la California. Ma alla fine il vecchio verbo goldwateriano, sconfitto eppure mai cancellato, sempre uguale e nondimeno rinnovato, trionfò alla Casa Bianca nel 1980 con un Reagan oramai maturo, primo presidente a non vergognarsi di essere conservatore. Né di pensare (sono tutte altre sue frasi famose) che lo Stato è spesso il problema e non la soluzione; che tutti quelli che vogliono l'aborto sono persone vive, vegete e già nate; che aumentare le tasse significa deprimere una nazione; che dimenticando Dio sopra il Paese finisce sotto; e che sì, il nemico sovietico si può anche battere.
Anche questa era una vecchia idea mutuata da Golwater, per la precisione dal suo libretto smilzo e sapido del 1963 intitolato Why Not Victory? Già, perché non vincere invece di scendere a patti? Per Reagan era giunto il momento di dispiegare con coraggio al mondo la propria filosofia di vita e di governo, mostrandone la bontà e l'efficacia. Il bene intrinseco nella libertà meritava la sconfitta dell'«impero del male».
Lo si ricorda poco, e forse nemmeno molti lo sanno, ma quella famosissima frase fu un'intuizione straordinaria. Era l'8 marzo 1983; parlando a Orlando, in Florida, d'un tratto Reagan abbandonò il testo scritto, cesellato diplomaticamente assieme ai suoi speech-writer, e a braccio forgiò quell'espressione epocale. Mezzo mondo raggelò, udendo già tintinnare le sciabole. Reagan, invece, viaggiava a un'altra dimensione; non iperuranica, ma più profonda. Usò quelle parole perché sapeva che l'uditorio, l'Associazione nazionale dei cristiani evangelical, era in grado di comprenderle appieno, in rappresentanza di un Paese intero, magari di tutto il "mondo libero". Aveva appena finito di citare non un capo di Stato maggiore, non un boss del controspionaggio, non un esperto di missilistica, ma uno degli apologeti più amati dai cristiani di ogni razza, C.S. Lewis, quello delle Cronache di Narnia e de Le lettere di Berlicche. Poco dopo citò il "maestro dei conservatori" Whittaker Chambers (1901-1961), l'ex spia sovietica che, passato all'Occidente, aveva scatenato uno dei maggiori processi del secolo denunciando l'infiltrazione comunista nelle alte sfere di Washington, e lo citò là dove scrive «che la crisi del mondo occidentale esiste nella misura in cui l'Occidente è indifferente a Dio, nella misura in cui esso collabora al tentativo comunista d'isolare l'uomo privandolo di Dio». Come vincere la terza guerra mondiale, insomma, con genio e talento sia in casa sia in trasferta. Fantasia al potere; o, come diceva il padre dei conservatori, Edmund Burke (1729-1797), immaginazione morale. Con la stessa fermezza con cui spinse l'Unione Sovietica all'implosione, nel 1981 Reagan aveva già ridotto, come mai nessuno nella storia americana, quella micidiale pressione fiscale che nelle democrazie è lo strumento principe dell'«impero del male». Era un cow-boy, Reagan, e non ha mai sbagliato un colpo.
Nota di BastaBugie: ecco un mirabile discorso di Ronald Reagan che ben riassume la sua filosofia politica: We the People. In esso il presidente afferma che la gente ha più libertà se è il popolo a decidere cosa deve fare lo Stato e non viceversa.
"Noi, il popolo, diciamo al governo cosa fare, non è lui che lo dice a noi". Noi, il popolo, siamo l'autista, lo Stato è l'auto: noi decidiamo dove va, attraverso quale strada e a quale velocità. Non deve essere il contrario, pena la perdita della libertà e della dignità umana. Insomma: meno Stato... e quindi meno tasse, meno leggi e regolamenti, meno burocrazia. "Gli uomini possono rimanere liberi solo se il governo ha dei limiti ristretti".
Ecco il video con la parte centrale del discorso (in inglese)
https://www.youtube.com/watch?v=GlgTwp93E48
Analoghe idee sulle tasse, le esprimeva Margaret Thatcher in Inghilterra (anch'essa negli anni '80). Ecco il link all'articolo di Marco Respinti e al video con un discorso della Lady di ferro, con relativa traduzione in italiano
MARGARET THATCHER: IL DENARO PUBBLICO NON ESISTE, C'E' SOLO IL DENARO PROVENIENTE DALLE TASSE
Lo Stato non ha nessuna fonte di denaro e se pensi che qualcun altro pagherà, sappi che quel qualcun altro sei tu
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=2754
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