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La legge 194 ha legalizzato l'aborto quando la gravidanza comporta "un serio pericolo per la sua (della donna) salute fisica o psichica". Se il pericolo fisico può medicalmente in qualche modo esser prevedibile, non lo è per l'ambito psichico, perché la donna si trova di fronte ad un problema e a una soluzione che sono un bivio tragico.
Chi ha contatto frequente con donne incinte può notare che la donna incinta parla sempre di "attesa di un bambino". Il fatto, pur nella sua semplicità disarmante, non va trascurato, perché essa non usa termini come embrione o feto, ma "bambino". Il suo parlare cela un evento potente, ovvio per le donne, ma nascosto al pensiero maschile. Accade che in essa passi in secondo piano il suo "esser donna" per far posto al nuovo "esser madre". C'è un cambiamento d'identità: da donna a madre! E una volta madri, lo si è per sempre.
Il fatto non è solo fisico, ma anche profondamente psicologico, perché nella donna si schiude uno spazio fisico e interiore per il figlio, che prelude alla relazione amorosa di accudimento.
SENTIMENTO DI FALLIMENTO
L'aborto s'inserisce in questo scenario emotivo e intimo. Perdere un figlio nelle prime settimane di gravidanza per aborto spontaneo ha l'effetto di uno choc caratterizzato da un senso di svuotamento, soprattutto se il figlio era desiderato. Non è solo delusa l'attesa di maternità, ma si prova anche un sentimento di fallimento.
Quando invece l'aborto è procurato, l'identità materna subisce un colpo devastante. Successivamente la donna tende a cambiare la percezione di se stessa, a volte anche in là col tempo.
Le testimonianze evidenziano una caduta dell'autostima, un sorriso che svanisce sotto l'azione del senso di colpa. Il dramma cresce nella solitudine e nel tentativo di rimuovere l'evento, tacendo il proprio malessere a se stessa, al partner e agli altri. All'inizio comincia col trascurarsi, non sentendosi degna di meritare d'esser ancora felice, perché ciò che di sé la donna pensava prima dell'aborto non corrisponde più a quello che dopo prova per se stessa. La verità è che l'aborto non è mai un ritornare a prima della gravidanza: il tempo non torna mai indietro.
Testimonia una ragazza: "L'aborto non ti riporta a prima della gravidanza. L'aborto non evita che tu mater diventi madre. Dal momento del concepimento sei già madre, ti piaccia o no. La verità è che l'aborto ti rende madre di un bambino morto". E qui scatta la coscienza devastante post aborto, che rende consapevole la donna del fatto che precedentemente il figlio era vivo.
La gravidanza è l'inizio dell'interazione fra un Io materno e un Tu filiale, il via a una relazione che è per sempre, poiché è assiomatico che dalla relazione non si esce. Non è che l'aborto concluda la relazione, come si va affermando. E non vi è negazione, rimozione o razionalizzazione di sorta che possa cancellare l'evento.
Dopo l'aborto, la donna dovrà affrontare la propria impotenza a modificare ciò che è definitivamente accaduto. Non si è liberata del problema, ma l'ha trasformato in un lutto! E il lutto non è mai per definizione una soluzione, ma una tragedia, qualcosa di traumatico che ricorre nell'immaginazione, nei pensieri, nei ricordi e nei sogni della madre mancata. Nei primi tempi può accadere che la donna provi anche del sollievo per essersi tolta "il problema" che non sapeva come sciogliere. E la negazione può funzionare anche per anni. Ma prima o poi dal fondo della sua identità qualcosa busserà al suo corpo. Alcuni esperti l'hanno configurato come disturbo post traumatico da stress.
Tutto questo porta a concludere che la donna, la madre, si salva o si perde con il figlio.
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