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«In tempo d'estate, un mattino, giaceva la Dama accanto al meschino. La bocca gli baciò e il viso, poi così gli disse: "Bello e dolce amico, il mio cuore dice che vi perderò: colti saremo e scoperti. Se voi morrete, io voglio morir; e se vivo potrete partire, voi troverete un altro amore e io rimarrò nel dolore. - Dama, fece lui, manco il dite! Ch'io non abbia gioia né pace, se ad altra lo sguardo volgerò! Non abbiate di ciò alcuna paura! - Amico, di ciò m'assicurate! La vostra camicia mi date; nel lembo di sotto farò un nodo: libertà vi dono, ovunque voi siate, d'amare colei che lo scioglierà e che disfar lo saprà." Egli gliela dà, così l'assicura. Un nodo ella fece in tal misura che donna alcuna scioglierebbe se la forbice o il coltello non vi metta. La camicia gli dona e rende. Egli la riceve ad una condizione, che anch'ella lo renda sicuro; con una cintura a sua volta la sua carne nuda cinge, attorno ai fianchi forte la stringe; chi la fibbia potrà aprir senza spezzarla né strapparla, il solo sarà ch'ella potrà amare. Poi la bacia, e così rimane». E pensare che questa scena d'amore così delicata, tratta dal Lai de Guigemar di Maria di Francia, ha suscitato le congetture più assurde da parte degli storici dell'Ottocento e dei primi del Novecento.
SEMPLICEMENTE UN GIURAMENTO DI FEDELTÀ
Cos'altro avrebbe potuto fare il cavaliere in esilio Guigemar, parto di quel Medioevo così oscuro e misogino, per garantirsi la fedeltà assoluta della sua dama, se non serrarla in una morsa di ferro che castrasse chiunque osasse toccarla, così che appartenesse a lui soltanto? Sembra che a nessuno degli storici di cui sopra sia passato per la testa che quello evocato da Maria di Francia fosse semplicemente un giuramento di fedeltà incondizionata l'uno all'altra, suggellato da un gesto concreto, uno di quei segni di cui la società feudale (stavolta sì) non può fare a meno: il nodo con cui sono legati sia la camicia del cavaliere sia la cintura della dama, infatti, richiama i tre nodi che si vedono sulle cinture di tessuto portate dai novizi degli ordini religiosi, tre quanti sono i voti che dovranno pronunciare, tra cui anche quello della castità. Non solo, il nodo e la fibbia che rappresentano il legame tra i due amanti saranno anche il mezzo che permetterà loro di ritrovarsi alla fine della storia.
A leggere le affermazioni degli storici dell'Ottocento (e anche gli articoli su certe riviste "divulgative" con tanto di titoloni a caratteri cubitali), c'è davvero di che far venire la pelle d'oca: secondo quanto si legge, a fare uso della cintura di castità sarebbero stati soprattutto i crociati, i quali, partendo per liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli, si sarebbero premurati di evitare qualsiasi rischio di ritrovarsi al ritorno in patria con un bel paio di corna, chiudendo letteralmente in cassaforte "l'onore" delle mogli; cosa che non ha molta consistenza già di per sé, perché l'obbligo di tenere un arnese di ferro a così stretto contatto con le parti intime avrebbe presto provocato una strage di donne per setticemia o per tetano.
Per giunta, nessuna delle fonti sulle Crociate, nemmeno da parte musulmana o bizantina, fa mai riferimento a questa pratica. Al contrario, Anna Comnena, nella sua Alessiade, sottolinea come, all'indomani dell'appello di papa Urbano II nel 1089 per difendere il Santo Sepolcro e i Cristiani di Gerusalemme dalle vessazioni dei Turchi, non sono solo gli uomini a mobilitarsi, ma anche le donne: «Si produsse allora un movimento di uomini e di donne come non si ricorda di averne mai visto l'uguale: le persone più semplici erano davvero animate dal desiderio di venerare il Sepolcro del Signore e di visitare i Luoghi Santi. […] L'ardore e lo slancio di questi uomini era tale, che tutte le strade ne furono coperte; i soldati franchi erano accompagnati da una moltitudine di gente senz'armi più numerosa dei granelli di sabbia e delle stelle del cielo, che portava palme e croci sulla spalla: uomini, donne e bambini che lasciavano i loro paesi».
Dunque non solo non c'è traccia di "segregazioni", ma è documentato che le donne possono perfino seguire i mariti nei "pellegrinaggi armati", come vengono chiamate all'epoca le Crociate; a volte intere famiglie di alto lignaggio partono per la Terra Santa. [...] È pur vero che molte restano in patria, ma non certo per starsene chiuse in casa: in assenza dei loro uomini, sono loro "il capofamiglia", signore dei feudi e responsabili dei vassalli, e come tali sono trattate.
LA CINTURA È SOLO SIMBOLO DI "CASTITÀ"
C'è da dire, comunque, che la cintura compare sì nei testi medievali in riferimento alla castità, ma in maniera del tutto simbolica: ad esempio nel Decretum Gratiani, raccolta di norme di diritto canonico risalente al XII secolo, in una delle cui miniature che riguardano il matrimonio, vediamo consegnare alla sposa una cintura (una cintura assolutamente comune), come segno del suo nuovo stato di "consacrata" allo sposo, un simbolo simile a quello che si scambiano come pegno di fedeltà reciproca gli amanti del Lai de Guigemar. La scelta della cintura come simbolo di castità, per le donne ma soprattutto per gli uomini, non è casuale: la predicazione del XIII secolo cerca di dire chiaro e tondo che il matrimonio è un sacramento, un "ordine sacro", la cui importanza è pari a quella degli ordini religiosi, e che dunque ha anch'esso delle regole, molto esigenti, sia per l'uomo sia per la donna.
La prima menzione di qualcosa che somiglia alla "cintura di castità" come la concepiamo noi, cioè come arnese
per impedire rapporti sessuali, è del 1405, e viene dall'ingegnere militare tedesco Konrad Kyeser von Eichstätt, che la inserisce all'interno di un trattato sulle varie tecniche di guerra, il Bellifortis; ad un certo punto troviamo il disegno di una specie di mutandoni di metallo, accompagnato da una scritta in Latino, "Est florentinarum hoc bracile dominarum ferreum et durum ab antea sic reseratum", "Queste sono le brache di ferro pesante delle donne fiorentine chiuse sul davanti in questo modo". La cosa viene presentata dunque come un'usanza specifica delle donne di Firenze, e per giunta descritta nel contesto di un trattato militare. C'è da capirle, le povere Fiorentine: la guerra, in pieno Quattrocento, è divenuta affare di bande di mercenari comandate da capitani di ventura, e, quando una città cade nelle loro mani, ci si può aspettare ogni tipo di barbarie, compresa quella di veder violentate perfino le monache; ancora peggio, poi, se si tratta della Toscana, dove infuria la guerra tra le grandi famiglie come i Cavalcanti, i Pazzi, i Medici.
BRAGHE DI FERRO ANTI-STUPRO
A mali estremi, estremi rimedi, e le donne di Firenze, perlomeno, possono contare su questa specie di "armatura" per evitare se non altro le conseguenze dei saccheggi nella propria carne.
Presto la notizia di questi arnesi si diffonde, e diventa materia succulenta per la letteratura satirica tanto di moda soprattutto nella Francia del Cinquecento: le cinture di castità sono le armi comiche dei soliti Barbablù da novella che alla fine si ritrovano immancabilmente "cornuti e mazziati", ad esempio nella raccolta Le dame galanti di Brantôme o nel romanzo Pantagruele di Rabelais. Il guaio è che queste storielle finiscono per esser prese alla lettera da letterati e storici di Settecento e Ottocento, e la storia di signori del Medioevo dispotici e violenti che, partendo per la guerra, impongono alle mogli la cintura di castità, della quale soltanto loro hanno la chiave, per scongiurare qualsiasi tradimento, viene data per buona; non solo, alimenta un mercato di "riproduzioni" ad uso dei collezionisti (in realtà veri e propri falsi inventati di sana pianta), sostanzialmente quelle che riempiono ancora oggi i vari "musei della tortura" sparsi per l'Europa. Nel 1889, addirittura, l'archeologo austriaco Maximilian Anton Pachinger annunciò la scoperta di una tomba femminile a Linz, da lui datata tra il Cinquecento e il Seicento, il cui scheletro avrebbe avuto l'osso pelvico cinto da una fascia di cuoio e ferro chiusa da ben due lucchetti, e possiamo facilmente immaginare quali fantasie avesse suscitato all'epoca un simile ritrovamento; purtroppo lo scheletro, con relativo arnese, è andato perduto, ma qualcuno ha recentemente ipotizzato che la defunta soffrisse semplicemente di una qualche deformazione al bacino e che la "cintura di castità" fosse in realtà soltanto una protesi per sostenerlo.
L'unico esemplare autentico conosciuto di "braga de fero" è custodito nell'armeria del Palazzo Ducale di Venezia, e si dice appartenuto ai da Carrara, signori di Padova (XV-XVI secolo): la sua analisi ha permesso di chiarire molte cose. La sua fattura corrisponde in pieno alle braghe di ferro fiorentine anti-stupro descritte dal von Eichstätt: una fascia "a croce" relativamente sottile che avvolgeva sia la vita sia il pube, rivestita di cuoio per una maggiore comodità. Interessante è il fatto che la braga in questione sia chiusa da un lucchetto cosiddetto "romano", fermato cioè da una sorta di fibbia, completamente inadatta ad una "cassaforte" ma che non permette un'apertura immediata. Insomma, questo arnese non poteva certo esser strappato con violenza di dosso a colei che lo indossava da un potenziale stupratore, ma, a emergenza passata, la signora avrebbe potuto toglierselo da sola in tutta tranquillità.
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