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«Se Alessandro Cecchi Paone spiega come dopo anni di matrimonio abbia scoperto e vissuto la sua omosessualità, diventa un eroe; se invece io voglio testimoniare il percorso inverso allora si scatena il putiferio e valanghe di insulti». È lo sfogo di Luca di Tolve, ex dirigente dell'Arcigay, che ha potuto recuperare l'identità eterosessuale ed oggi è marito e padre felice oltre che fondatore e animatore dell'Associazione Gruppo Lot Regina della Pace. Il Gruppo Lot, dice la descrizione che si trova nel sito, «ha finalità di solidarietà sociale nei confronti di persone sofferenti che portano dentro di sé ferite e dipendenze a livello emotivo, relazionale, di identità sessuale, di abuso e di violenza, che hanno difficoltà nell'avere sane e buone relazioni con gli altri».
Di Tolve, che ha anche raccolto la sua storia in un libro (Ero gay, Piemme editore) è stato fatto oggetto in questi giorni di una vera e propria aggressione mediatica.
Da una parte La 7, con la trasmissione "Anno Uno" condotta da Giulia Innocenzi, andata in onda l'altra sera: «Hanno usato filmati ripresi di nascosto che peraltro - malgrado il tentativo di "mascherare" il volto dei presenti - violano la privacy di quanti partecipavano al ritiro (del caso parliamo a parte con questo articolo). Non solo: con una intervista iniziale a Luca Di Tolve - la cui messa in onda non era stata autorizzata - il programma è stato condotto a senso unico, ridicolizzando l'esperienza di Luca Di Tolve e tanti altri. Per non parlare poi di come è stata condotta la trasmissione, con la derisione di chiunque andasse contro il politicamente corretto: immaginarsi dunque come è stato trattato il vescovo di Palestrina monsignor Domenico Sigalini, lì presente.
Dall'altra il quotidiano Repubblica che - anch'esso due giorni fa - ha pubblicato un reportage da uno dei ritiri condotti da Luca, in cui il giornalista Matteo Pucciarelli si era intrufolato falsificando i documenti personali: «Siccome in passato ci sono stati tanti giornalisti che hanno cercato di introdursi nei nostri incontri per poi poter annunciare uno scoop, siamo molto severi nel controllare l'identità delle persone che si iscrivono - soprattutto a tutela di chi vi partecipa - e così il giornalista di Repubblica ha prodotto identità e documenti falsi. E lo ha anche scritto sul giornale».
Lo stesso giornalista poi ha fatto delle riprese e delle foto a insaputa di coloro che hanno partecipato al ritiro e ora si possono vedere sul sito di Repubblica. Anche qui sono stati commessi reati e violazioni evidenti della Carta deontologica, ma si può stare certi che nessuno interverrà. «Da quando sono state varate le linee guida per i giornalisti per la prevenzione dell'omofobia - dice di Tolve - è diventato un inferno. Si susseguono tentativi di carpire chissà quali informazioni segrete sulle nostre attività». E poi, come in questo caso, se le notizie non ci sono si inventano: «Repubblica ha scritto che si tratta di corsi per "guarire" i gay - riprende Di Tolve - ma noi non facciamo nessuna terapia, non siamo psicologi. Quello a cui ha partecipato il giornalista di Repubblica era un semplice ritiro spirituale».
Ma l'inviato di Repubblica ha fatto di più: una ripresa video che rende riconoscibili alcuni dei partecipanti al ritiro, una vera infamia. «Questi atti sono gravissimi, non rispettano minimamente la dignità delle persone. Di più, sono fatti apposta per intimidire le persone che così sono scoraggiate a partecipare. Data la delicatezza di queste situazioni, le persone vengono perché è anche garantita la più totale discrezione. Ma questi blitz danno invece la sensazione opposta, la mancanza di sicurezza. È ovvio che si fa così per impedire questi ritiri, fare in modo che, per paura, la gente non venga qui da noi».
Insomma è diventata una vera e propria guerra che vuole negare anche la più semplice presenza di persone che recuperano la loro eterosessualità, e che vuole impedire che qualcuno racconti queste storie. E non è un caso che questa demonizzazione di Di Tolve e altri esploda in questo momento: la maggioranza di governo sta spingendo sull'acceleratore per arrivare in fretta a varare le unioni civili (in pratica il matrimonio gay).
Nota di BastaBugie: ''Ad una teoria si può rispondere con un'altra teoria; ma chi può confutare una vita?'' (Evagrio Pontico, monaco del IV secolo). Per articoli e video riguardanti la vicenda di Luca di Tolve vai al seguente link:
deltimone-staggia.it/it/edizioni.php?id=35">http://www.amicideltimone-staggia.it/it/edizioni.php?id=35
Interessante l'articolo di Ruben Razzante "Una palese violazione di legge e codice deontologico" pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana:
Al di là di come la si pensi sui corsi che aiutano le persone a correggere le tendenze omosessuali, la vicenda presenta anche degli aspetti squisitamente deontologici, che non possono lasciare indifferente il mondo dei giornalisti.
L'altra sera, su La 7, durante la puntata di "Anno Uno", è andato in onda un servizio realizzato da Giuseppe Borello, inviato della trasmissione ad Angolo Terme, provincia di Brescia, nel centro di spiritualità Sant'Obizio, che organizza ritiri spirituali, venduti in tv come corsi mirati alla "guarigione" dei gay.
Borello, ovviamente sotto mentite spoglie, cioè fingendo di chiamarsi Francesco e di essere un giovane studente gay, filma quanto accade durante quei corsi e confeziona un servizio fatto su misura per screditarli e ridicolizzarli. Pur occultando i volti dei partecipanti, riporta racconti, situazioni, confessioni che i gay fanno ai tre organizzatori, in primis Luca di Tolve, ex attivista dell'Arcigay, ex ballerino alla discoteca Plastic di Milano, inventore delle crociere per omosessuali, ora impegnato a testimoniare la possibilità del recupero dell'eterosessualità. Svela, cioè, contenuti di conversazioni private e riservate, che toccano aspetti assai sensibili dell'individualità di ciascuno e che dovrebbero rigorosamente essere protetti dalla privacy.
Si tratta, dunque, di un esempio di pessimo giornalismo, che viola le carte deontologiche e che meriterebbe l'immediata apertura, da parte del consiglio di disciplina competente, di un procedimento disciplinare nei confronti dell'autore del servizio e di chi, nel ruolo di responsabile della trasmissione, ne ha autorizzato la messa in onda.
Il giornalista, infatti, è chiamato ad osservare obblighi di trasparenza e a dichiarare le finalità della raccolta dati. Su questo punto l'art.2 del Codice deontologico del 1998, che disciplina il rapporto tra giornalismo e privacy, è molto chiaro: l'utilizzo dei mezzi fraudolenti (telecamere nascoste, microfoni-spia, ecc.) o delle tecniche invasive per estorcere informazioni riservate si giustifica solo quando il giornalista rischia la sua incolumità o quando, se il giornalista dichiarasse la sua identità, gli verrebbe precluso l'esercizio della funzione informativa. Tale principio si completa con la previsione contenuta nell'art.3 di quel Codice, che riguarda la tutela del domicilio, all'interno del quale l'obbligo di tutelare la riservatezza è massimo. Al domicilio devono essere equiparati i luoghi di detenzione e di riabilitazione, ma anche, con un'interpretazione estensiva, i luoghi aperti al pubblico come il centro di spiritualità in questione, che non possono essere assimilati ai luoghi pubblici (una piazza), essendo accessibili solo con il permesso di chi ne è titolare o di chi li gestisce.
Borello potrebbe obiettare che, se si fosse presentato con nome, cognome e qualifica, non gli avrebbero consentito di entrare e di documentare ciò che accadeva durante quei corsi. Ma quanto succede in quei corsi è riservato a chi, versando una quota, decide di parteciparvi, e non può dunque essere considerato di interesse pubblico né diventare oggetto di un diritto di cronaca "anarchico" e privo di limiti. Se passasse il principio che il giornalista, con le buone o con le cattive, è autorizzato a raccogliere tutte le informazioni che gli interessano, senza preoccuparsi delle controindicazioni e dei valori da assicurare nell'esercizio del diritto di cronaca, arriveremmo alla giungla informativa.
Quel servizio ha inferto un vulnus ingiustificato alla privacy della struttura, dei promotori e dei partecipanti ai corsi, pur nel rispetto dell'anonimato di questi ultimi, resi non riconoscibili nel servizio. Inoltre, presenta profili diffamatori e lesivi della dignità di chi ha organizzato quei momenti di confronto su un tema assai sensibile come quello dell'omosessualità. Potrebbero esservi altresì elementi sufficienti per integrare il reato di diffamazione, considerati i risvolti denigratori che, durante il servizio, sembrano emergere dai commenti fatti da quel giornalista e anche in studio dagli ospiti della puntata di "Anno Uno".
Se un giornalista documenta reati, disservizi, situazioni che vanno a impattare direttamente sulla qualità della vita dei cittadini (maltrattamenti in ospedali o strutture di cura o istituti scolastici, mancato rispetto di norme igieniche in mense pubbliche, ecc.), è autorizzato a usare i mezzi fraudolenti perché il fine superiore di fornire un'informazione utile a tutti i cittadini prevale sulle esigenze di tutela della privacy. Violando quest'ultima, il giornalista illumina l'opinione pubblica su una situazione illegale o ai confini con l'illegalità, scongiurando il rischio che essa produca effetti nocivi nei confronti di qualcuno.
Qui, invece, si è andati oltre e si è preteso di spiare e riferire al grande pubblico scene riservate e delicate, peraltro accadute in luogo privato. Se la categoria dei giornalisti tollera tali esempi di sciacallaggio non può poi pretendere di risultare credibile né può lamentarsi del pessimo giudizio che hanno di certa informazione tanti milioni di cittadini. Per fortuna tantissimi colleghi di Borello non si sarebbero mai comportati come lui.
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