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« Torna ai risultati della ricerca
Solo se conosciuta la verità rende liberi. Parte da questo assunto Il figlio sospeso, l'opera seconda del regista siciliano Egidio Termine. Il film recentemente proiettato al Festival di Taormina affronta il tema della maternità surrogata senza entrare nel merito di questioni bioetiche, legali o tecnico-scientifiche.
Si vuole piuttosto affrontare lo stato di sospensione del protagonista, Lauro, la cui sete di verità lo spinge sulle strade di un "viaggio" alla ricerca della sua stessa identità. Senza essere un film dichiaratamente di "denuncia", Il figlio sospeso riesce quindi a raccontare al grande pubblico tutta la drammaticità e problematicità di una pratica, l'utero in affitto, i cui effetti e ricadute sul nascituro non sono ancora sufficientemente studiati dal mondo dalla sociologia e della psicologia. Un terreno antropologico nuovo, su cui il regista Egidio Termine ha voluto puntare i riflettori anche per difendere ciò che di umano è rimasto nella nostra società contemporanea, come conferma nell'intervista rilasciata alla Nuova Bq.
Anzi tutto come nasce l'idea di girare questo film
«Vent'anni fa avevo deciso di lasciare il mondo del cinema in seguito alla mia "conversione"; mi ero iscritto all'Istituto superiore di Scienze Religiose a Monreale (Palermo). Per quattro anni ho studiato, oltre alle materie strettamente dottrinali, anche quelle "filosofiche" cioè quelle che studiano la realtà che ci circonda, che mi hanno appassionato, tra le quali l'antropologia, l'etica, la bioetica, la sociologia e la psicologia. Mi sono imbattuto sul pensiero di Donald Winnicott. Lo studioso inglese aveva preso spunto, per fondare la sua teoria sulla psicologia infantile dal una favoletta di Margery Williams: Il coniglietto di velluto che metteva in evidenza la necessità fondamentale per il bambino di sentirsi amato quale condizione necessaria per uno sviluppo della personalità. In altre parole, il bambino, sin dal grembo materno sente di essere amato o rifiutato e ciò determinerà due percorsi opposti, uno armonico, l'altro problematico. Da qui nasce la mia esigenza di fare un film social-psicologico partendo dal punto di vista del bambino, troppo spesso dimenticato nei dibattiti sugli argomenti in cui si affrontano priorità sui diritti umani di carattere bioetico».
Con la sua narrazione cinematografica quali aspetti ha voluto mettere a fuoco di questo drammatico fenomeno della maternità surrogata?
«In primo luogo la ferita senza possibilità di ricucita del figlio e poi la storia parallela di due madri che in un certo senso rivendicano un diritto, quello della maternità. Perché dico in un certo senso, perché il figlio non è un diritto, ma un incontro. Non si adotta un figlio per riempire un vuoto, ma per dare a lui la possibilità di una crescita in famiglia e quindi un inserimento più armonico nella società. Dico questo perché rimango convinto che la famiglia sia la vera cellula della società».
Lei dice che quest'opera non ha voluto prendere una posizione etica, tuttavia la storia fa emergere una violazione dell'identità e della verità che invoca giustizia
«Un regista non deve mai fare un film a tesi, cioè per dimostrare una tesi, in quel caso scriverebbe un saggio, quindi è molto difficile rimanere neutrali dal punto di vista etico. Il film deve fare emergere una situazione conflittuale, un dramma, e offrire al pubblico una possibilità di riflessione. Sì, è vero: dal racconto della storia del protagonista emerge una violazione di un diritto del bambino e quindi una verità che chiede giustizia. Ma nel film, la verità ricercata e conosciuta, che è sempre la base fondamentale per costruire rapporti e relazioni, non ha un'accezione negativa, ma sempre positiva. Il figlio rimarrà come tale per sempre sospeso tra due madri, quella biologica e quella culturale, ma esploderà in una maturità che comunque lo farà "uomo". Da qui la citazione del Vangelo: La verità ci fa liberi».
Quando si parla di utero in affitto si tirano in ballo i diritti delle donne e la lotta allo sfruttamento delle ragazze più povere. Lei ha messo al centro, invece, il dramma del bambino e il suo diritto a non essere strappato dalla madre biologica. Crede che questo aspetto sia volutamente sottaciuto dal dibattito pubblico?
«Dico solo che nel passaggio epocale dall'umanesimo al post-umanesimo che stiamo vivendo in cui si vuole ridisegnare l'antropologia umana, la sospensione non è solo del bambino, ma di tutta l'umanità, una sospensione in attesa di… Di cosa non si sa. C'è solo la voglia di cambiare e di rifiutare quelle che sono le regole antropologiche su cui si fonda il cristianesimo, e tutto questo perché si deve eliminare Dio dalla nostra vita, un Dio troppo scomodo e ingombrante».
Nel film si afferma che solo se conosciuta per intera la verità rende liberi. Sembra un manifesto per la felicità
«É un manifesto per essere veri e reali. Il bisogno di verità è innato nell'essere umano, e la conoscenza della Verità, che poi alla fine è Dio stesso, ci porterà, se pur carichi di ferite (la croce) alla vera origine dell'esistenza. Quindi anche nelle piccole cose quotidiane la frase del Vangelo deve essere applicata».
Lei dice di essersi ispirato all'antropologo tedesco Arnold Gehlen che affermava: «l'uomo è un essere culturale», e poi lei stesso dice che «l'amore è culturale e ad amare si impara». É un monito a non creare fratture tra la sfera culturale e quella naturale dell'essere umano
«L'essere umano vive in una continua tensione tra ciò che in lui è naturale e il suo bisogno di essere culturale. Non c'è natura senza cultura e non c'è cultura se non si parte dalla natura. Ad amare si impara perché l'amore spesso viene scambiato per un sentimento, l'amore è un atto della volontà a partire da un sentimento. "Ad amare si impara" non lo dico io. Ed è proprio questa è l'idea centrale del mio film, un'idea centrale che deve avere il carattere dell'universalità, cioè deve poter valere per tutti. Almeno questo è sempre un obiettivo che si pone il regista di un film».
Lei racconta un giovane uomo alla ricerca e di una madre biologica che non si è mai arresa all'idea di rivedere suo figlio. Questa storia non è poi molto lontana dalla realtà che emerge dalle testimonianze di persone concepite in questo modo. Insomma, il sangue non è acqua è prima o poi porta interrogarci riguardo alle nostre radici
«Le radici sono fondamentali, però attenzione, le radici vanno conosciute per migliorarci nella tensione verso il futuro, per poterlo migliorare. Ciascuno ha il dovere di migliorare la qualità della propria e dell'altrui vita, ma a partire dalla consapevolezza di ciò che siamo ed eravamo storicamente».
Alcuni ambienti culturali hanno ancora qualche difficoltà a condannare la pratica dell'utero in affitto o persino a parlarne, lei ha incontrato resistenze nel portare avanti quest'opera?
«La paura è quella di non volere prendere posizione per paura di perdere consensi. E oggi chi prende posizione è un coraggioso».
Che riscontri ha avuto da queste prime proiezioni? C'è un pubblico che è pronto a recepire queste storie?
«Il film parla alle emozioni, emozioni che successivamente vanno razionalizzate. Il compito del regista è quello di offrire momenti di riflessioni per analizzare il passato; interpretare la realtà che ci circonda; offrire anche anticipazioni sul futuro. Ma lo deve fare a partire dalla sfera emotiva, se no deve scrivere un saggio».
Dove e quando il grande pubblico potrà vedere il suo film? Che tipo di distribuzione è prevista?
«La distribuzione piccola, ma efficace è quella della Mediterranea Productions di Angelo Bassi, un uomo molto coraggioso che non ha esitato a mettersi in gioco e a rischiare con me anche critiche scomode e deleterie per il nostro lavoro. Per questo lo ringrazio. Penso che il film uscirà nelle sale in autunno».
Nota di BastaBugie: ecco il trailer del film "Il figlio sospeso"
https://www.youtube.com/watch?v=VWS5qWTD36k
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