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I vicepresidenti degli Stati Uniti non li ricorda nessuno, ritenendoli mero arredamento. Invece no: attendono "in sonno" di non servire a nulla giacché il loro incarico è sopperire automaticamente alla tragedia garantendo la continuità delle istituzioni, la legittimità del potere e l'unità del Paese in caso di morte o d'incapacità del presidente. Sono dunque uno dei fattori che impediscono agli Stati Uniti di conoscere crisi di governo.
Per questo il confronto tra i due candidati alla vicepresidenza l'8 novembre, Michael R. Pence per il Partito Repubblicano e Timothy M. Kaineper il Partito Democratico, svoltosi martedì 4 ottobre alla Longwood University di Farmville, in Virginia, è stato importante.
CHI HA VINTO?
Chiedersi "Chi ha vinto?" forse appaga ma non spiega. Il primo dei tre dibattiti tivù fra Donald J. Trump e Hillary Clinton (il 26 settembre alla Hofstra University di Hempstead, nello Stato di New York) lo avrebbe vinto Hillary solo perché Trump non ha debordato come amici e nemici gli consigliano da sempre di fare... Del resto, nessuno ha ancora dimostrato se questi duelli spostino percentuali elettorali significative. Il dato notevole del confronto tra i vice è dunque un altro. La rappresentazione pubblica di due criteri alternativi di vivere la politica, persino di due antropologie contrapposte.
Kaine ha aggredito e interrotto. Alla sua mimica facciale mancavano solo i colori di guerra. Il close-up implacabile delle telecamere lo ha mostrato quasi digrignare. Invece Pence, olimpicamente sereno, ha parato i colpi con sorrisi ben temperati, non è caduto nel tranello del battibecco, ha aggirato gli ostacoli. Potrebbe sembrare una partigianeria che stempera tutto nel body language, ma è il contrario. Le posture sono state contenitori di contenuti opposti, significanti di significati irriducibili.
Kaine ha difeso la Clinton denigrando Trump, Pence si è sfilato con eleganza superlativa all'insostenibile leggerezza dei trumpismi. Kaine è stato clintonlatrico, Pence un uomo di princìpi. Kaine serve per vendere la Clinton come la Clinton non sa fare, Pence è già oltre con un suo tesoretto: c'è chi l'8 novembre voterà più lui che il magnate newyorkese; se andrà male, potrebbe essere una caparra per il 2020.
FEDE E POLITICA
Ma l'abisso che li separa è arrivato alla penultima delle nove domande poste dalla moderatrice Elaine Quijano, giornalista di CBS News: quella sul rapporto tra fede e politica. Kaine e Pence sono cristiani praticanti. Per Kaine, però, il diritto alla libertà religiosa (sancito dal Primo Emendamento alla Costituzione federale statunitense, il primo diritto dei cittadini americani) è di fatto il "diritto all'errore", al massimo quello alla religione in coscienza come piace a madama Hillary. Quando fede e politica cozzano, Kaine censura la prima. Pence è invece famoso per avere detto: «Sono un cristiano, un conservatore e un Repubblicano in quest'ordine». Per lui nulla consente di annacquare la fede.
L'esempio usato da Kaine per illustrare una contraddizione tra fede e politica è la pena di morte. Convintamente contrario, quando era governatore della Virginia (2006-2010) ha applicato la pena capitale che è legge dello Stato. Pence ha invece citato «la sacralità della vita», difesa in faccia a una legge nazionale che lo permette; per lui è tra l'altro insopportabile l'appoggio della Clinton persino al partial-birth abortion (la soppressione del bambino già per buon parte fuori dall'utero materno). Kaine è infatti favorevole alla legge americana sull'aborto (anche se personalmente contrario) e attacca i suoi avversari con un sofisma volgare: la difesa della vita sarebbe solo l'ennesima dimostrazione di misoginia di Trump.
Ora, la cosa più grave è che Kaine sia cattolico; o, meglio, un «problema cattolico»: un cattolico contro la pena di morte che la dottrina cattolica non condanna, ma entusiasta della libertà pubblica di aborto che la dottrina cattolica condanna. Pence invece è protestante e contro l'aborto cita la cattolica santa Teresa di Calcutta: del resto fu cresciuto cattolico e oggi si definisce «[...] un cattolico evangelical e born-again», laddove i termini evangelical e born-again caratterizzano il protestantesimo anti-relativista.
Non bastasse, Kaine è un figlio della "teologia della liberazione" di stampo marxista e un convinto sponsor dell'ideologia LGBT tanto da auspicare che sul tema la Chiesa Cattolica cambi presto "parere". Definisce la Clinton una "buona cristiana" (una metodista semisegreta, come ha spiegato la rivista America dei gesuiti), ma evidentemente, tra aborto, gender e cose così, qualcosa non quadra.
L'allora cardinal Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel 2004 ribadì che i politici cattolici pubblicamente a favore dell'aborto (John F. Kerry, Nancy Pelosi, etc.) non possono ricevere la Comunione. Papa Benedetto XVI ha poi reiterato il divieto. Evidentemente Kaine quel giorno era distratto, ma non così i vescovi americani. Certo, sarebbe ingenuo pensare che la sola contrarietà all'aborto possa essere sufficiente per laureare un buon tandem presidenziale, ma è del tutto evidente che alcuni argomenti sono indisponibili anche per la politica mentre di altri (che pur debbono in qualche modo fondarsi sui princìpi non negoziabili) è lecito discutere. È qui che tra il laicista Kaine e il laico Pence, dunque tra Clinton e Trump, la distanza è incolmabile. Persino The Weekly Standard (anti-Clinton, ma sin qui non pro-Trump) comincia ad accorgersene.
Nota di BastaBugie: per vedere la risposta alla domanda sul rapporto tra politica e fede nel dibattito tra i due vice, clicca qui sotto (è ovviamente in lingua inglese, ma ci sono i sottotitoli in inglese)
https://youtu.be/N2q7sOub2Ls?t=1h28m3s
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