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Direi che la differenza fondamentale tra sposarsi e convivere è nel numero di persone coinvolte. Due conviventi se la vedono tutta da soli; due che si sposano chiamando Dio in soccorso, invece, chiedono a lui la grazia di fare questa cosa impensabile e più che umana: amare per sempre. E insieme chiedono anche ad altri di essere testimoni della loro promessa. Chiedono alla società - dagli amici e i parenti fino alla più alta istituzione - di essere garanti della loro unione, che non è solo un affare privato, ma un bene comune.
DIO CI RENDE CAPACI DI AMORE OLTRE I NOSTRI LIMITI
Nel caso di una convivenza sono loro due, gli innamorati, gli unici protagonisti della storia: ci sono solo i loro sentimenti, le loro promesse scambiate in privato, magari con tutta la serietà possibile, con tutti i sentimenti e la convinzione e le migliori intenzioni. Nel caso del matrimonio cristiano, invece, due persone che, come tutti, desiderano un amore illimitato, totale, perfetto, indefettibile, incrollabile, chiedono a Dio di renderlo possibile, perché sanno che il nostro desiderio è illimitato, mentre il nostro cuore, al contrario, è limitatissimo, inaffidabile, volubile, fragile, e solo Dio, che è amore, ci rende capaci di un amore che va oltre i nostri limiti. È solo da una relazione con lui che veniamo piano piano guariti, redenti, e capaci di un amore così grande come dare la vita per il nemico. Perché a volte nel combattimento della vita, nel cammino di conversione, lo sposo è proprio il nemico, cioè la persona che ti fa fare la fatica più grande. E poi ci sono gli altri: i fratelli nella fede nel caso del matrimonio cristiano, amici non di lui o di lei, ma amici della famiglia che nasce nel giorno del matrimonio: il primo figlio generato dalla coppia infatti è proprio il noi due, che tendiamo verso una sola carne, in un cammino che dura tutta la vita.
Gli amici della famiglia saranno quelli capaci di offrire riparo nelle tempeste, aiuto nelle emergenze, quelli capaci, se servirà, di prendere a pugni lui se se ne vuole andare con la segretaria, o a schiaffi lei se si innamora di quello che le fa gli occhi dolci. Perché i veri fratelli nella fede non sono amici di lui o di lei da soli, sono amici della coppia, e hanno ben chiaro che è un bene che la famiglia resista alla tempesta - la tempesta arriverà di certo - e non saranno mai di quelli che dicono "trova te stesso, vai in fondo al tuo desiderio». Per quanto io non capisca come si possa pensare di sposarsi se non cristianamente - solo Dio può, pur nella cultura in cui siamo immersi, consentirci, col suo aiuto, di realizzare un matrimonio per sempre - sicuramente anche nel matrimonio civile c'è qualcosa, anzi, c'è molto di più che nella convivenza. Si prende un impegno davanti alla comunità, e la comunità, almeno in teoria, dovrebbe riconoscere che in questa scelta c'è un bene per la collettività. Uso il condizionale perché, per come la vedo io, da quando si è riconosciuta la possibilità di sposarsi anche alle persone dello stesso sesso, lo Stato ha smesso di riconoscere il bene oggettivo comune (in coppie programmaticamente sterili non c'è un bene per la collettività).
UNA CONDIZIONE ANSIOGENA
La convivenza, rispetto al matrimonio, ha un elemento di debolezza anche semplicemente umano: non c'è, programmaticamente, una decisione definitiva e totale. Che la cosa sia espressa, che sia consapevole o meno, quando si va a convivere lo si fa perché si sta bene insieme, ma la porta di casa rimane, per così dire, aperta. Se uno non si trova più bene, può aprirla e andarsene: e ciò è molto ansiogeno, come documentano vari studi, che smentiscono la tesi della convivenza come condizione più serena rispetto al matrimonio: dati alla mano risulta l'inverso, mediamente. Il metro di valutazione della relazione è il sentire dei due conviventi. Anche se non lo si dice, è come se ci si chiedesse continuamente se le cose vanno bene o no, e quando smettono di andare bene, ci si lascia.
Quando si è sposati il punto di vista è capovolto. Non mi chiedo più se va bene, ma come far andare bene le cose, visto che devono andare.
LE EMOZIONI NON BASTANO
Ma il punto centrale di tutta la questione, mi dispiace ripetermi ma la cosa è troppo importante, è che l'uomo da sé non è capace di amore, di un amore eterno e grande come quello che desidera il nostro cuore, ferito a morte dal desiderio di eterno, e guaribile solo da un amore che profumi, che sappia di eterno.
Il motivo della crisi dei matrimoni dunque ha sicuramente a che fare prima di tutto con una crisi di fede, che non con ragioni sociologiche. Caduto l'esoscheletro sociale che teneva in piedi le famiglie - la famiglia come cardine - un'unione può sperare di essere indissolubile solo con la grazia di Dio, mentre oggi l'idea promossa dal pensiero unico è che basti la buona volontà, che i buoni sentimenti siano sufficienti.
È per questo che il tema del matrimonio mi appassiona tanto.
Il fatto è che in gioco è qualcosa di grande: è la verità sull'uomo. Questo desidero ascoltare da mia madre, la Chiesa, questo desidero capire. Ecco, quello che sperimento io, da moglie e mamma ma prima ancora, molto prima, da donna, è che c'è qualcosa in me che non funziona. È che io non sono capace di bene, da me sola. Credo sia il grande equivoco che è alla base di tanti errori contemporanei. Quella che si tenta di annunciare oggi è l'autosufficienza dell'uomo. Ma i buoni propositi e buoni sentimenti, anche ammessa la buona fede di chi cerca di diffonderli, si scontrano con la realtà che la natura umana, ferita dal peccato originale, ha bisogno di essere guarita dal medico, dal salvatore, dall'unico che può permetterci di dire "ti amerò per sempre", cioè da Dio. Solo a partire dall'incontro con lui potremo promettere qualcosa di eterno. Non perché sarò io a farlo, ma perché sarà qualcuno che lo farà in nome mio. A lui chiedo aiuto, oggi, e per tutti i giorni della mia vita.
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