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E' MORTO CABIBBO, IL GRANDE FISICO ITALIANO A CUI E' STATO NEGATO IL PREMIO NOBEL PERCHE' CATTOLICO
Nominato dal Papa presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, ha fatto grandi scoperte scientifiche (individuate sei differenti tipi di quark)
di Franco Gabici
 

Nicola Cabibbo, scomparso a Roma lunedì sera all’età di 75 anni (era nato a Roma il 10 aprile 1935), apparteneva a quella generazione di fisici che ha dato contributi fondamentali alla fisica delle particelle elementari; un campo ostico che difficilmente si presta alla grande divulgazione, ma che gioca un ruolo importantissimo nella comprensione di molti fenomeni. Cabibbo, docente di fisica delle particelle elementari all’Università di Roma, era un nome molto noto ai fisici di tutto il mondo, che vedevano in lui un vero pioniere nel suo campo.
Laureatosi in fisica a soli 23 anni con Bruno Touschek, il padre del primo acceleratore italiano di particelle costruito a Frascati, già nel 1961 pubblica un articolo sulla sezione d’urto, un lavoro fondamentale per chi studia i fenomeni di collisione delle particelle elementari, e due anni dopo firma sulla prestigiosa rivista Physical Review Letters l’articolo che lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo dove introduceva una famosa costante, conosciuta oggi come «angolo di Cabibbo», per spiegare certe trasformazioni di particelle. Ma il nome del fisico italiano è finito anche nella cosiddetta «Matrice di CKM», dove Ckm è l’acronimo dei tre cognomi Cabibbo, Kobayashi e Maskawa. La «matrice di CKM» è un modello che ha consentito di prevedere l’esistenza di sei differenti tipi di quark, i mattoni ultimi della materia che combinandosi in diversi modi formano le particelle elementari (protoni, neutroni, elettroni...). Non a caso il nome di Cabibbo è il primo della «triade»; fu Cabibbo, infatti, coi suoi studi, ad aprire la strada a questo nuovo filone di studi volti alla comprensione dei meccanismi che spiegano l’intima struttura della materia. Ma grande fu la sorpresa dei fisici, soprattutto italiani, quando si apprese la notizia che la giuria di Stoccolma aveva conferito il Nobel per la fisica ai due ricercatori giapponesi che facevano parte della triade «Ckm», Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, senza la minima menzione alle ricerche di Cabibbo.
Qualcuno, probabilmente a ragione, avanzò l’ipotesi che l’esclusione di Cabibbo dal Nobel fosse stata causata dall’essere il fisico italiano il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, della quale faceva parte fin dal 1993. Va anche ricordato che Cabibbo è considerato anche il padre dei super calcolatori Ape (Array Processor Experiment), macchine che attualmente sono in grado di effettuare un miliardo di miliardo di operazioni al secondo!
Da uomo di fede Cabibbo considerò sempre con grande equilibrio il rapporto fra scienza e fede, convinto che tra scienza e fede dovesse esserci «rispetto reciproco». Riteneva, inoltre, che non dovessero essere imposti dei limiti alla ricerca scientifica, ma che occorresse «fare attenzione alle possibili applicazioni e alle implicazioni etiche». E su quest’ultimo punto Cabibbo affermava che, se da un lato le religioni potevano dare gli input sull’etica, dall’altro era importante che la comunità scientifica avesse un ruolo positivo nell’elaborazione della morale. Non nascondeva che certe questioni potevano generare qualche imbarazzo fra religione e ricerca ma, parafrasando una famosa frase che Galilei passò a Cristina di Lorena («L’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarsi come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»), sosteneva che l’uomo deve aspettarsi dalla fede la salvezza e non la spiegazione del mondo. Del resto era anche convinto che la scienza non potesse mettere in difficoltà la fede, perché le scoperte scientifiche sono 'vere' e ciò non può essere in contrasto con la creazione. Secondo Cabibbo infine  la Chiesa, dopo aver rivolto le proprie attenzioni ai temi dell’evoluzionismo e della biologia, avrebbe dovuto presto confrontarsi anche con la fisica, soprattutto dopo i possibili sviluppi legati al funzionamento del più grande acceleratore di particelle del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra. E a questo proposito non condivideva la definizione di «particella di Dio» data al famoso «bosone di Higgs» al quale i fisici stanno dando da tempo la caccia. «Chiamare il bosone di Higgs la particella di Dio – commentò Cabibbo – è stata la trovata stravagante di un collega americano, ma con Dio non ha nulla a che fare». Cabibbo ha giocato un ruolo fondamentale anche nella politica della ricerca.
Dal 1985 al 1993, infatti, è stato a capo dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn) e sotto la sua presidenza sono stati inaugurati i Laboratori nazionali del Gran Sasso, mentre dal 1993 al 1998 è stato presidente dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. L’attuale presidente dell’Infn, Roberto Petronzio, che fu allievo di Cabibbo, così ha commentato la morte del grande fisico: «Scompare uno scienziato dotato di un pensiero profondo e un grande maestro. Cabibbo è stato fra i protagonisti assoluti della scuola romana di fisica». Per il fisico Giorgio Parisi, uno dei suoi allievi più influenti, «è stato senza dubbio il punto di riferimento di un’intera generazione di fisici. A livello umano era una persona contagiosa. Si vedeva chiaramente che si divertiva a fare la fisica, che per lui era come se fosse un gioco». Molto significativo anche il commento di Luciano Maiani, presidente del Cnr: «Lavorare con lui era sorprendente. Conosceva tutta la fisica e aveva dimensioni intellettuali pari a quelle di Enrico Fermi». Proprio alcuni giorni fa per i suoi studi sull’«interazione debole» era stata conferita a Cabibbo la Medaglia Dirac, che equivale a un Nobel per la fisica; quasi un risarcimento per quel Nobel mancato che fece gridare allo scandalo. Molti parlarono di «scippo». Ma Cabibbo non offrì nessun commento e anche per questo dimostrò ancora una volta tutta la sua grandezza.

DOSSIER "SIC TRANSIT GLORIA MUNDI"
Personaggi morti dal 2009 al 2019

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Fonte: Avvenire, 18 agosto 2010