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Largo ai giovani, si usava dire una volta, e l’espressione viene ora attualizzata dalle Nazioni Unite che hanno inaugurato ieri l’Anno Internazionale dedicato appunto ai giovani. Lo scopo dichiarato di questo ennesimo anno celebrativo è mettere i giovani al centro delle varie politiche di sviluppo, pace e solidarietà. L’Onu, impegnata nel raggiungimento degli Obiettivi del Millennio, punta su «energia, passione e creatività» dei giovani in questa lotta per sradicare la povertà e le disuguaglianze. Tutto bello, tutto condivisibile finché siamo all’enunciazione dei princìpi. Entrando però nel dettaglio delle proposte e delle iniziative non si possono non rilevare alcune incongruità e contraddizioni.
Una prima questione riguarda l’esistenza stessa dei giovani che, in numero di un miliardo circa, rappresentano circa il 18% della popolazione mondiale. Ebbene, oltre l’85% di loro vive nei Paesi in via di sviluppo, il 62% solo in Asia.
Vale a dire: la stragrande maggioranza di loro vive in quei Paesi dove le stesse agenzie dell’Onu – e alcuni governi occidentali – promuovono aggressive politiche di controllo delle nascite all’interno dei programmi di sviluppo. La contraddizione appare evidente: come si può essere credibili nel puntare sui giovani quando poi si investono miliardi di dollari per fare in modo che i giovani non nascano?
La seconda questione riguarda il nodo fondamentale della maturazione dei giovani: l’educazione. È questa anche la prima priorità per questo Anno internazionale. Non sorprendentemente l’Onu insiste anzitutto sull’istruzione, visto che oltre 150 milioni di loro sono analfabeti, e di questi due terzi sono ragazze. Ma nei documenti dell’Anno e in quelli che preparano le conferenze internazionali previste sul tema, emerge con chiarezza una posizione ideologica. Vale a dire il tentativo di «sottrarre» i giovani alle famiglie. Famiglia e ruolo dei genitori non sono mai citati nei programmi che riguardano l’educazione, e non è un caso.
Sulla spinta dei Paesi nordeuropei, da almeno un ventennio le agenzie dell’Onu promuovono un sistema educativo statalista, in cui l’interlocutore diretto dei giovani è lo Stato – o un’entità sovrastatale quale è l’Onu – mediato al massimo dalle organizzazioni giovanili (l’educazione tra pari).
Basta dare un’occhiata ai documenti internazionali per rendersi conto che quando la famiglia è chiamata in causa, generalmente avviene in chiave negativa, ovvero come luogo di costrizioni da cui difendere il singolo individuo.
Eppure la realtà dimostra che la piena maturazione dell’individuo è possibile soltanto all’interno di una famiglia che, non a caso, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo considera la cellula base della società.
L’approccio proposto dall’Onu somiglia invece a un’opera di indottrinamento. Tanto più che si lega alla terza questione da esaminare, ovvero il contenuto dell’educazione. Nei prossimi giorni si svolgerà a Leon, in Messico, la Conferenza mondiale dei giovani, l’appuntamento più importante di questo anno celebrativo. La bozza di dichiarazione finale indica come priorità i diritti sessuali e riproduttivi e la richiesta di garantire «l’accesso universale alla salute riproduttiva». Il che, nel linguaggio dei promotori, significa contraccezione e aborto. Per essere ancora più espliciti, è in atto il tentativo di rendere universale ciò che sta accadendo in alcuni Paesi occidentali, ovvero la possibilità per gli adolescenti di usare contraccettivi e abortire senza il consenso dei genitori.
Se dovesse prevalere un simile approccio, potremmo già considerare fallito l’obiettivo dell’Anno internazionale, perché un’educazione così intesa non può generare persone mature capaci di offrire un apporto creativo alla società, ma soltanto individui che seguono una strada già scelta per loro da adulti, la cui unica autorità in materia magari è un posto da burocrate internazionale.
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