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Il 4 marzo prossimo i cattolici andranno al voto nudi. Finora non si era mai vista una situazione così intrisa di disillusione, smarrimento, dispersione. La storia della diaspora dei cattolici in politica è lunga. Essa inizia quando i primi cattolici entrarono come indipendenti nelle liste del PCI, ma anche prima con il "cattolico comunista" Franco Rodano e con Felice Balbo. E' quindi una storia lunga, che ora però sembra giunta a conclusione. La diaspora è completa, ognuno per sé e Dio per tutti, nudi alla meta.
Un segno molto evidente che un lungo percorso si è malamente concluso è che oggi nessun cattolico direbbe che non si può votare per Emma Bonino. Essere cattolico ed essere radicale non è più considerato una contraddizione. Il democristiano Tabacci ha perfino offerto alla Emma Nazionale ospitalità nella propria lista, evitandole la fatica e l'incertezza della raccolta delle firme. La Bonino gira normalmente le parrocchie parlando di ius soli e mostrando come l'unico modo per vincere la denatalità non è abrogare la 194, ma regolarizzare tutti gli immigrati clandestini in un solo colpo. Del resto non era ella stata lodata dalle alte gerarchie ecclesiastiche assieme a Marco Pannella?
Poter essere radicale e cattolico nello stesso tempo sancisce la separazione definitiva tra politica e religione, priva definitivamente la religione cattolica delle proprie pretese pubbliche, conduce a termine il processo di secolarizzazione che ormai da decenni la teologia cattolica considera un fatto meritorio dovuto allo stesso cristianesimo. Dovremmo quindi ringraziare il Signore se oggi anche noi cattolici possiamo votare Emma Bonino. In una situazione del genere come si fa a non essere disorientati?
TRE FATTI NUOVI
I cattolici sono ormai nudi alla meta dell'urna perché i pastori non forniscono più i criteri. La Nota episcopale sulle convivenze di fatto del 2007 è solo un vago ricordo che non ha più avuto seguito. Dopo di allora: "Fate come vi detta la vostra coscienza". Solo che la coscienza per il cattolico deve essere "retta" e "formata". E i pastori dovrebbero aiutarci a renderla tale. Tre fatti nuovi sono intervenuti a disturbare questo processo.
Il primo consiste nella preferenza data al come rispetto al cosa. La lotta fatta in pubblico per valori umani assoluti è stata accusata di mancare nello spirito di dialogo e di essere una prova muscolare. Anche la presenza silenziosa in una piazza. Se non c'è un certo "come", stabilito secondo le mode pastoralistiche di oggi, i pastori si dissociano o addirittura condannano. Essi raccomandano solo uno stile - generalmente incentrato sul dialogo e sulla misericordia - e non indicano più dei contenuti.
Il secondo consiste in un rinnovato clericalismo. Il rapporto con il governo, con singoli ministri, con i partiti politici, l'azione di lobby parlamentare, la contrattazione sulle leggi... sono svolti direttamente dai vertici ecclesiastici o vengono svolte attraverso associazioni ecclesiali strettamente dipendenti dai vertici ecclesiastici. Quanto è espressione spontanea dei cattolici liberamente aggregati è vista male e con sospetto.
PRINCIPI NON NEGOZIABILI IGNORATI
Il terzo è che le priorità dell'agenda dell'impegno cattolico sono state sovvertite. Alla vita, alla famiglia, alla libertà di educazione sono state anteposte altre priorità: l'accoglienza degli immigrati, la tutela dell'ambiente, il lavoro. Pur non trattandosi di temi a carattere assoluto, essi come tali vengono presentati e il povero cattolico che ancora cerca di vedere se nel programma del tale partito si parla di aborto, vale a dire di uccisioni di esseri umani innocenti, pensa di non essere pastoralmente aggiornato.
Alle prossime elezioni del 4 marzo i cattolici andranno in una situazione paradossale. Nel momento di maggiore ingerenza clericale nella politica, i cattolici andranno alle urne nudi e soli, spaesati e dispersi.
Tutte le ultime votazioni parlamentari a favore di leggi disumane hanno visto l'adesione dei parlamentari cattolici, con rarissime eccezioni. L'idea che fu del cardinale Ruini di essere presenti nei vari partiti per poi convergere come cattolici in parlamento davanti a leggi inique è fallita. Alcune associazioni cattoliche ora la ripropongono per il voto del 4 marzo: "contaminare" i partiti, non certo tutti ma alcuni. E' una strategia che ha già perso in passato, ma che, nella situazione attuale, rischia di essere l'unica disponibile. Un usato poco sicuro, ma per il momento sembra non esserci altro. Fintantoché non si prenderà atto che bisogna partire da più lontano.
Nota di BastaBugie: Tommaso Scandroglio nell'articolo sottostante dal titolo "Votare è un dovere non assoluto" fa notare che il presidente Mattarella e l'arcivescovo di Milano Mario Delpini insistono sul dovere di votare. Del resto la partecipazione al voto è un dovere morale, così come ogni forma di partecipazione al bene comune, ma non è un dovere assoluto. E in alcuni casi l'astensione, se ben motivata, è una forma di impegno politico... e dunque lecita.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 27 gennaio 2018:
Ha iniziato il presidente della Repubblica Mattarella con il discorso di fine d'anno: "Mi auguro una grande partecipazione al voto, che nessuno rinunci al diritto di concorrere a decidere le sorti del nostro Paese". E poi aggiunse un'analogia suggestiva: cento anni fa i diciottenni di allora - i famosi ragazzi del'99 - andarono al fronte nella Grande Guerra, oggi i diciottenni vengono chiamati al voto. E dunque pare di leggere in filigrana questa conclusione: come allora le leva era obbligatoria, anche oggi è obbligatorio andare a votare.
Poi l'invito al voto è stato lanciato anche da alcuni uomini di Chiesa. Mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano, ha scritto una lettera ai diciottenni (si vede che tutti temono una cospicua latitanza alle urne dei Millennials): «A 18 anni incomincia il diritto dovere di votare. [...] Non cambierà tutto in una tornata elettorale. Ma certo con l'astensionismo non si cambia niente!". Alle parole di Delpini hanno fatto eco quelle di Mons. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che nella sua prolusione in occasione dell'ultimo Consiglio permanente così si è espresso: "Come Vescovi ci uniamo innanzitutto all'appello del Capo dello Stato a superare ogni motivo di sfiducia e di disaffezione per partecipare alle urne con senso di responsabilità nei confronti della comunità nazionale".
Non vogliamo qui soffermarci sul fatto che ormai i vescovi e cardinali parlano come i politici e si preoccupano più del bene comune che del bene comune delle anime, più a far crescere i fedeli nelle virtù civiche che in quelle cardinali e teologali, più ad invitare ad entrare nei seggi elettorali che in una chiesa o in confessionale. Pare proprio che ormai l'unica preoccupazione sia, esprimendoci in termini agostiniani, per la città terrena e non per quella di Dio.
Ma, come dicevamo, non è questo punto che vogliamo indagare, bensì un quesito eminentemente morale: è doveroso andare a votare? Sì è un dovere morale, perché su tutti grava l'obbligo di contribuire al bene comune e nelle società democratiche tale obbligo si declina anche, ma non solo, nel dovere di partecipare al voto. Detto questo però è bene aggiungere che il dovere di votare - al pari di tutti i doveri morali affermativi che comandano di fare qualcosa di positivo/attivo - è contingente, ossia non deve essere soddisfatto sempre e comunque. Invece, e sta qui il problema, ad ascoltare le personalità di cui sopra pare proprio che il dovere di votare sia assoluto, un po' come il dovere di non commettere un omicidio o un furto.
Quindi c'è il dovere di votare, ma questo dovere non vale sempre. Vi sono alcuni criteri che se rispettati legittimano sotto il profilo morale anche l'astensione. Il primo criterio da rispettare è il fine ricercato: perché Tizio ha deciso di non votare? Se è per indifferenza, perché è solo una fastidio recarsi alle urne o per motivazioni simili, il fine non è lecito e quindi l'astensione non è giustificata. Ma potrebbero esserci altri motivi che invece renderebbero eticamente valida l'astensione. Ad esempio: nessun partito, tenuto conto del suo programma, delle dichiarazioni dei suoi leader, del suo passato politico, ha dato prova che tutelerà i principi non negoziabili. Oppure nessun partito, nonostante le sue proposte siano moralmente accettabili, suscita la fiducia dell'elettore. Infine l'astensione potrebbe significare, nelle intenzioni del cittadino, sfiducia nelle istituzioni, critica ad alcuni assetti istituzionali ormai radicati in tutti gli schieramenti, denuncia dell'irrilevanza politica e dello scollamento tra potere politico e sentito popolare. Tutte motivazioni che sarebbe opportuno rendere pubbliche. Queste sono solo alcune finalità che potrebbero lecitamente suggerire al cittadino di non recarsi alle urne, oppure di votare scheda bianca o di rendere nulla la scheda.
Un nota bene: nel caso in cui tutti i partiti nel loro programma si dichiarassero a favore di aborto, eutanasia, divorzio, etc., il voto a favore di uno di questi partiti sarebbe un voto a favore anche del suo programma. E dunque non rimarrebbe che la soluzione dell'astensione. Eccetto questo caso, non basta un buon motivo per non votare perché l'astensione sia moralmente lecita, occorre altresì verificare che tale astensione sia efficace, ossia che produca più effetti positivi che quelli negativi. Se sul piatto della bilancia degli effetti positivi possiamo mettere quelli indicati prima - lanciare un segnale alle istituzioni richiamandole ai loro compiti, manifestare il proprio disagio perché nessun politico è percepito come vero collaboratore del bene comune o autentico rappresentante di chi vota - sull'altro piatto della bilancia dobbiamo mettere alcuni possibili effetti negativi, quali: il favorire nella collettività la disaffezione alla politica, il permettere che "altri voteranno al posto tuo", l'incentivare lo scollamento tra mondo della politica e cittadini, etc. Dove pende di più il piatto della bilancia lo lasciamo decidere al lettore.
A noi premeva soltanto sottolineare che l'astensione non è sempre sinonimo di disimpegno politico, ma a volte è sinonimo di impegno politico espresso per il tramite di un rifiuto al voto motivato e reso pubblico. Dunque non abbiamo voluto invitare a non votare, ma abbiamo solo voluto invitare a riflettere che non sempre si realizza l'equazione "astensione = male morale". In breve il cittadino che si astiene dal voto può lecitamente farlo e, a priori, non è giusto additarlo a nemico pubblico o a zecca del sistema.
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