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« Torna alla edizione
«Si deve partire dalle scuole, insegnare ai bambini a volersi bene e a rispettarsi, vero antidoto alla cultura dell'odio, alla rabbia, ai fenomeni, troppi, di autolesionismo». Sono parole pronunciate dal ministro della salute Beatrice Lorenzin, leader di Civica Popolare (in campo col Pd). E aggiungeva che «serve un piano nazionale, un patto tra scuola e genitori» (così titolava «Il Messaggero.it» l'1 marzo u.s.). Il tema era il femminicidio, ripreso con veemenza esasperata dall'ultimo, clamoroso, episodio: il carabiniere di Latina che ha ucciso le figliolette e ferito gravemente la moglie prima di suicidarsi.
«114 donne uccise in Italia nei primi dieci mesi del 2017», snocciola «Il Messaggero.it», «al Nord più che al Sud, quasi sempre da mariti, conviventi, compagni, fidanzati». Chissà a cosa si riferiva il ministro parlando di «troppi» episodi di «autolesionismo». Nei bambini? Boh. Per quanto riguarda il femminicidio, ci si potrebbe chiedere perché incide, in Italia, più al Nord che al Sud. Non era il Sud più sanguigno, più incline alla violenza per motivi d'onore? Non sarà che il Sud, nel suo inguaribile ritardo, divorzia e si separa meno? Infatti, la maggior parte dei casi di femminicidio è scatenata proprio dal timore di un abbandono.
Proprio nel fatto di Latina, la moglie del carabiniere voleva lasciarlo e lui non l'ha sopportato. Il meccanismo psicologico è noto: lei vuole andarsene, il giudice sicuramente le assegnerà i figli, i quali dovranno crescere con un probabile nuovo compagno di lei. Specialmente se sono piccoli, questo talvolta scatena la furia: piuttosto che in mano a un estraneo li ammazzo. «Talvolta», grazie al cielo, perché, diciamolo, 114 casi all'anno su 60 milioni di abitanti non fanno pensare a una «strage», come è stato detto. Non sembri cinico questo ragionamento: è chiaro, anche un solo caso sarebbe troppo.
QUALCOSA DI DIVERSO
Ma i crudi numeri raccontano qualcosa di leggermente diverso. Il termine «femminicidio» è stato coniato da Maria Marcela Lagarde, femminista comunista messicana, ed è stato lanciato dal film Bordertown del 2006 (con Jennifer Lopez, Antonio Banderas e Martin Sheen) che indagava sulle troppe donne trucidate nella città messicana di Ciudad Juarez. Da noi il termine viene applicato in un ambito ristretto, riferendosi alle donne uccise dai «mariti, conviventi, compagni, fidanzati». Chissà perché, non lo si usa per le fasce d'età estreme, adolescenti e grandi anziani. Comunque, viviamo nel Paese con un basso tasso di omicidi femminili, rispetto, per esempio, all'Austria, alla Francia e alla Svizzera che hanno percentuali quasi doppie.
Il numero delle donne che si tolgono la vita è quattro volte superiore. Il maschi ammazzati stanno a tre a uno rispetto alle donne. Questi i numeri nudi. Tuttavia, anche se di minor impatto numerico rispetto alle percezione (e, ma sì, all'enfasi ideologica), il fenomeno va, certo, affrontato, ma non si vede che cosa c'entri la scuola. Evidentemente si suppone che sia tutta una questione di educazione, che corsi appositi, magari cominciati alle elementari (e perché non all'asilo?), inculcheranno nelle menti il rispetto, il dominio di sé, l'accettazione serena delle diverse vedute del prossimo.
LEZIONI CONTRO IL BULLISMO, CHI L'HA DETTO CHE FUNZIONANO?
Bisognerebbe, per esempio, conoscere l'impatto delle lezioni contro il bullismo. Funzionano? In ogni caso, il ministro non ha dubbi: «Dobbiamo immaginare anche un diverso supporto psicologico alla coppia e alla famiglia, dobbiamo insomma mettere in campo una vera e propria rete su tutto il territorio nazionale per prevenire, curare e fermare questo orrendo femminicidio». Si potrebbe obiettare che il carabiniere di Latina era già in cura da uno psicologo, ma tant'è.
Il ministro comunque incalza: «Ancora oggi, nel terzo millennio, dietro ai femminicidi c'è una visione della donna come proprietà privata dell'uomo, inadatta a prendere decisioni autonome, destinata a un ruolo subalterno». In verità, quasi nessuna delle vittime faceva la casalinga sottomessa e dipendente dal marito, e forse l'approccio dovrebbe essere un tantino diverso. Basta guardare ai tassi di femminicidio nei Paesi c.d. avanzati, dove l'emancipazione della donna è somma e vige da lungo tempo, Germania, Norvegia, Danimarca, Svezia... Nella triste classifica, l'Italia è fanalino di coda insieme a Irlanda e Grecia. Insomma, concentrarsi, come si fa, su una sola tipologia di omicidio rischia solo l'inconcludenza.
Nota di BastaBugie: Souad Sbai nell'articolo sottostante dal titolo "8 marzo, il femminismo delle privilegiate odiatrici" parla del solito siparietto dell'8 marzo. Infatti in tale data va in scena la grande festa delle femministe, con la loro continua guerra contro l'uomo. Ma vengono dimenticate le donne che soffrono per davvero, in Iran, nel Maghreb e nelle comunità di immigrati in Italia, tuttora costrette a obbedire a leggi religiose e tribali.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 9 marzo 2018:
Il day after 8 marzo è sempre un misto di desolazione e constatazione del non senso. E non è casuale questa definizione visto che davvero oggi, visto da fuori, un 8 marzo così non ha davvero più alcun motivo di esistere. Non perché sia politicizzato, o meglio ideologizzato perché lo è sempre stato almeno nel nostro Paese, bensì perché non si vede ormai da anni donne manifestare per le donne. Per tutte le donne.
Facciamo alcuni esempi, lontani e vicini. In Iran una ragazza viene condannata a due anni per aver tolto il velo per qualche minuto, ma non viene considerata degna di attenzione o di difesa. Il 60% delle bambine di origine maghrebina in Italia non frequentano la scuola dell'obbligo e non sapremo probabilmente mai che fine faranno. Anche qui silenzio totale, perché altrimenti qualcuno si offende. E poi le spose bambine, la recrudescenza dell'infibulazione e chi più ne ha ne metta. Si dirà ''si manifesta per tutto'': eh no le cose vanno chiamate per nome altrimenti non è ''tutte le donne'' ma solo ''alcune donne'', quelle che al femminismo salottiero attuale fa comodo difendere. Il pensiero unico ci raccomanda di non disturbare le ''tradizioni'' di altri Paesi, e di distruggere quelle nazionali, dunque non c'è di che stupirsi, ma la cosa va denunciata ugualmente. Del resto questo tipo di femminismo, ideologizzato fino all'osso, cosa ha portato per le donne in Iran o in Afghanistan? Nulla di nulla. Un deserto di valori e di contenuti difficile anche da descrivere. Fatto sta che ogni rivoluzione o sommovimento oscurantista viene salutato dall'elite femminista come una liberazione, salvo poi tacere in maniera criminogena sugli effetti di quelle rivoluzioni: khomeinismo spietato a Teheran, talebani e burqa a Kabul.
Quello andato in scena ieri, con le vedette della neonata guerra contro tutti gli uomini, è un triste siparietto di modernità bislacca, fasulla, plastificata da parole inglesi e hashtag violenti: insomma, una cosa che non ci azzecca niente con la grandiosa figura della donna nella storia. Le grandi donne hanno sempre lavorato per unire, per costruire e per amare: non per dividere, distruggere e odiare. Ma vallo a spiegare a chi fa della crociata contro l'uomo molestatore una ragione di vita, vagli a dire che per costruirsi un'immagine duratura non serve nemmeno questo. Si dia un'occhiata alla misera campagna elettorale portata avanti da alcune formazioni che hanno puntato sull'antifascismo in assenza di fascismo. E ai risultati ottenuti. Ecco, dopo aver ragionato su tutto questo ci si sveglia il 9 marzo e come associazione ci si sente soli. Come prima per carità, ma ancora più soli nella denuncia della mancanza di centri antiviolenza; per carità lo diciamo oggi così nessuno si risente e ci dice che le molestie alle attrici sono più importanti.
Chiudiamo con il surreale sciopero indetto per l'8 marzo, con donne che per questa follia comunicativa hanno perso un giorno di lavoro o addirittura hanno dovuto pagare di tasca propria un taxi. Già, perché oggi il lavoro è sempre garantito e le tasche sono piene. Ma alle femministe questo non interessa, perché ogni donna licenziata o in miseria è per loro una manna, che alimenta in un gioco inquietante una propaganda stantìa e ormai nauseabonda.
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