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«Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore»: così recita il titolo della XXXI edizione del Meeting di Rimini che si apre oggi. Sono parole che invitano a riflettere sulla natura umana, sulla nostra radice profonda, sul fuoco che a volte ci pervade e che, in ogni caso, non si spegne mai del tutto, nemmeno quando una cultura riduzionista cerca di convincerci che siamo solo materia, né quando ci dedichiamo a cose volgari oppure a cose piccole in modo sproporzionato. In effetti, siamo esseri che desiderano cose grandi, come già suggerisce l’etimologia latina della parola desiderio che (secondo alcune ricostruzioni) è composta dal “de” privativo, che indica mancanza di qualcosa, e da “sidera”, cioè il cielo, le stelle, la felicità (fuor di metafora). E se è vero che «nulla di grande si fa senza passione», come hanno rilevato diversi autori, al fondo di ogni particolare passione e desiderio che ci spingono a cercare cose grandi c’è un desiderio radicale (tematizzato da moltissimi letterati e filosofi), che è la scaturigine ed il sostrato di tutti gli altri e del nostro intero dinamismo. Lo possiamo comprendere riflettendo sul sentimento della delusione.
Infatti, noi sperimentiamo due tipi di delusione. In primo luogo c’è la delusione per uno scopo mancato: volevamo un buon lavoro e non l’abbiamo avuto, volevamo girare il mondo e non ci siamo riusciti, volevamo essere amati e non siamo stati amati, ecc., perciò siamo insoddisfatti e amareggiati. Ma, in secondo luogo, esiste anche la delusione per uno scopo conseguito, quella che proviamo perché il raggiungimento di un certo traguardo non ci soddisfa come ci aspettavamo: volevamo un buon lavoro e l’abbiamo avuto, volevamo girare il mondo e ci siamo riusciti, volevamo essere amati e siamo stati amati, ecc., eppure, ogni volta, contrariamente alle nostre aspettative, dopo aver raggiunto un traguardo non siamo appagati. La delusione dell’obiettivo conseguito ci coglie (prima o poi) persino quando abbiamo raggiunto una meta a cui anelavamo spasmodicamente e ci rivela che nel nostro cuore alberga un desiderio − che è cifra della grandezza umana − che nessun bene finito può soddisfare: un desiderio di un Bene Assoluto. Per questo l’uomo è un essere essenzialmente inquieto, proteso a cercare in modo inesausto come l’Ulisse di Dante, mai pago, mai pienamente felice nella condizione storica della sua esistenza.
Più precisamente, la felicità umana è legata alle relazioni interpersonali di amore: non si può essere felici da soli e chi vive stabilmente (e non soltanto temporaneamente) in solitudine è tremendamente infelice o, nella migliore delle ipotesi, sperimenta una condizione di mera assenza di negatività, ma non di pienezza. D’altra parte, nessuna persona finita e nessuno dei nostri amori possono pienamente dissetare la nostra esigenza di infinito. Pertanto, la delusione dello scopo conseguito può farci comprendere che solo una definitiva e indefettibile relazione di comunione con una Persona Infinita può essere pienamente felicitante. Una comunione non provvisoria e parziale (quella che gli uomini di fede coltivano durante la loro vita mortale), bensì totale, dunque il cielo che de-sideriamo è il Cielo. Come ha scritto Simone Weil, «quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio; come Ulisse, che si destava in un paese sconosciuto dove i marinai l’avevano trasportato durante il sonno e sentiva il desiderio d’Itaca straziargli l’anima». E quale sia la nostra Itaca ce lo evidenzia s. Agostino: «Ci hai fatti per te [o Dio] e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te».
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