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12 anni per possesso illegale di armi da fuoco e banda armata con aggravante di associazione sovversiva. Questa la sentenza del processo di primo grado. Dopo il quale, Cesare Battisti è evaso nel lontano 1981, per rifugiarsi prima in Francia, poi in Messico, poi ancora in Francia e infine in Brasile. Nel corso della sua lunghissima latitanza, nel 1985 è stato condannato per l'omicidio di quattro persone, due omicidi commessi personalmente altri due in concorso di colpa, sentenza confermata nel 1991 dalla Corte di Cassazione. Viene poi condannato all'ergastolo con sentenza della Corte d'assise d'appello di Milano nel 1988 (confermata dalla Cassazione nel 1993) per omicidio plurimo, oltre che per i reati di banda armata, rapina e detenzione di armi. Con una fedina penale così carica di reati, come si spiegano tante protezioni politiche e una vasta rete di solidarietà fra gli intellettuali?
I PROLETARI ARMATI PER IL COMUNISMO
La biografia dell'ex terrorista rosso, membro dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) alla fine degli anni '70, pare quella dei tanti jihadisti protagonisti di questa ultima stagione del terrorismo. Figlio di militanti comunisti, si iscrive presto alla Fgci (la gioventù comunista, dell'allora Pci) e poi la molla, si iscrive al liceo e poi lo molla, ha da subito un'adolescenza violenta, con due arresti per rapina. Arrestato di nuovo durante il servizio militare per aver picchiato un superiore, in carcere a Udine incontra l'ideologo del Pac, Arrigo Cavallina e si "radicalizza" come si direbbe oggi. Le sue precedenti rapine, l'aggressione ad un sottufficiale, l'adolescenza violenta, diventano per lui, a posteriori tappe di un percorso politico. Il comunismo trasforma così una rapina in un esproprio proletario, un'aggressione in un atto di resistenza. Tornato a casa, vede che il suo ambiente è stato devastato dalla diffusione dell'eroina (la droga dominante alla fine degli anni '70) e si convince che sia un complotto dello Stato per stroncare una gioventù rivoluzionaria. E quindi si trasferisce a Milano, dove si imbarca nell'impresa terrorista dei Pac. Per Cesare Battisti, che si proclama tuttora innocente e nega di aver partecipato ai delitti di cui è accusato, la sua è stata solo un'esperienza fugace e puramente politica, senza violenza. Dichiara di essere uscito dai Pac nel 1978, prima dei delitti per cui è condannato come colpevole. Tuttora dichiara di non aver mai sparato, se non per la caccia o per esercizio. Mentre i suoi ex compagni di lotta, poi pentiti, fra cui il testimone chiave Pietro Mutti, lo hanno visto sparare in due occasioni, votare per condannare a morte, far da palo a un delitto.
LA VERITÀ DEI PROCESSI A BATTISTI
La verità processuale è comunque l'unica fonte affidabile che abbiamo a disposizione, a meno di non voler credere solo all'accusato e ai suoi difensori, contro testimoni e magistrati di tre gradi di giudizio in ben sette processi. E secondo la verità processuale, Cesare Battisti, assieme a una complice, Enrica Migliorati (poi condannata a 22 anni di carcere), ha sparato all'agente Antonio Santoro, maresciallo del Corpo degli agenti di custodia. Il delitto avviene a Udine, il 6 giugno 1978, l'attentato viene rivendicato dai Pac. Il 16 febbraio 1979, un gruppo di fuoco spara sul gioielliere Pierluigi Torregiani, mentre, in compagnia dei figli adottivi, sta aprendo il suo negozio, a Milano. A ucciderlo è Giuseppe Memeo, protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo (quella che lo vede incappucciato e inginocchiato mentre prende la mira con la sua pistola, in una "manifestazione" in via De Amicis, a Milano). Il figlio del gioielliere, Alberto, 15 anni, colpito per errore nello scontro a fuoco alla spina dorsale, resta invalido per tutta la vita. Cesare Battisti non c'è, ma i pentiti dei Pac lo individuano come uno degli uomini che hanno condannato a morte Torregiani, in una riunione organizzativa che ha preceduto l'azione terroristica. Battisti, in quel momento è in Veneto, a Santa Maria di Sala, a fare da palo a un altro gruppo di fuoco dei Pac, che uccide il macellaio Lino Sabbadin. Il 19 aprile successivo, invece, è Cesare Battisti stesso che apre il fuoco e uccide l'agente della Digos Andrea Campagna.
LA SUA SCARCERAZIONE CHIESTA DA 1500 INTELLETTUALI NEL 2004
I dubbi sulla verità processuale sono sempre doverosi e i garantisti sono in prima linea nel difendere Battisti dal linciaggio. C'è sempre la possibilità, per quanto remota, che il colpevole sia in realtà un innocente. Tutto è possibile, questo è bene premetterlo, specie se l'accusa si fonda sulla testimonianza di pentiti, come nei processi di Mafia: persone che ottengono sconti di pena in cambio di collaborazione con la giustizia. Ma, detto questo, perché dovremmo credere solo a Battisti e non ai magistrati dei suoi sette processi? Al di là dei garantisti (pochi), a difendere la sua innocenza e a considerarlo un perseguitato politico c'è uno stuolo di firme dell'intellighenzia di sinistra. Nomi di persone che, in altri casi, sono stati molto attivi nel chiedere condanne di politici a loro invisi. Fra queste firme vi troviamo i sostenitori nel suo "esilio" francese Bernard Henri Levy, Tahar Ben Jalloun, Daniel Pennac, il premio Nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez, mentre in Italia è sostenuto, fra gli altri, da Valerio Evangelisti, Vauro Senesi, Paolo Cento, Giovanni Russo Spena. Le 1500 firme, raccolte nel 2004 per chiedere la sua scarcerazione dopo l'arresto avvenuto in Francia, si possono leggere tutte qui. Per dovere di cronaca: c'era anche la firma dello scrittore Roberto Saviano, ma poi l'ha ritirata nel 2009. Le autorità francesi, che hanno protetto Battisti fino al 2004, non hanno mai concesso l'estradizione nel nome della "dottrina Mitterrand", cioè la protezione data, in via automatica, a tutti i fuggitivi degli anni di piombo. Una dottrina che si basava, unicamente, sul presupposto che in Italia la magistratura fosse inaffidabile. Saltata questa copertura, Battisti ha trovato un altro protettore importante: il presidente Lula, in Brasile. Il presidente brasiliano ha dovuto lottare non poco anche contro le sentenze della magistratura del suo stesso paese, che aveva arrestato Battisti nel 2007 e lo aveva ritenuto estradabile (sentenza del Supremo Tribunale Federale nel 2009). Solo dopo la vittoria elettorale del candidato di destra, Bolsonaro, la copertura politica di Battisti è saltata e appena un paio di mesi dopo è stato arrestato ed estradato in Italia.
LE SENTENZE DI MORTE DEI PROLETARI ARMATI PER IL COMUNISMO
Per comprendere realmente la natura di tante e tali protezioni politiche, occorre rileggere le sentenze di morte delle vittime dei Pac. Perché è in quelle sentenze che si trova di nuovo la causa di tutto, cioè il comunismo, l'ideologia marxista leninista. Se Battisti fosse stato un semplice rapinatore, se avesse ucciso poliziotti e gioiellieri per arricchirsi in modo illecito, sarebbe finito in qualche colonnina di cronaca nera e questi anni li avrebbe passati in galera. O da semplice latitante in fuga, ricercato dalla polizia e senza alcun politico, giornalista, scrittore o accademico schierato in sua difesa. Invece i Pac hanno ucciso Antonio Santoro perché era un "torturatore del proletariato". E chi lo aveva detto? La stampa politica dell'epoca, Lotta Continua prima di tutto. I Pac non hanno assassinato Pierluigi Torreggiani per rapinare il suo negozio, ma perché Pierluigi Torreggiani, filantropo e uomo molto noto e stimato nella Milano di allora, vincitore dell'Ambrogino d'Oro, si era difeso un mese prima da un tentativo di rapina. E allora la stampa politica dell'epoca, inclusa La Repubblica, lo aveva definito "giustiziere". E la cosa non dovrebbe stupirci per niente, basti vedere il tenore dei commenti quando qualcuno spara per difendere se stesso, la sua casa o il suo negozio dai rapinatori. Sabbadin non lo hanno ammazzato per rapinare la sua macelleria. I Pac lo volevano morto perché era un militante dell'Msi e perché, anche lui, aveva osato difendere il suo negozio sparando contro i rapinatori e uccidendone uno. Aveva osato opporsi ad un "esproprio proletario", ad una redistribuzione spontanea della proprietà. Quindi era anche lui un "nemico del popolo". Come lo era Andrea Campagna, agente della Digos che aveva osato arrestare i membri dei Pac nell'ambito dell'indagine sul delitto Torregiani. E la sua foto era stata pubblicata, in bella mostra, al fianco degli arrestati.
Ebbene sono questi i moventi dei delitti firmati dai Pac, per cui Cesare Battisti è stato condannato. L'ideologia comunista non è stata rinnegata, mai, da nessuno. Al massimo se ne contestano i metodi, non i fini. E chi ci ha creduto, raramente ammette che è un'ideologia intrinsecamente violenta, perché teorizza la lotta di classe (che è lotta armata: implica l'uccisione dei nemici di classe). Allora il comunismo era dominante nel mondo della cultura, anche se era escluso dal potere politico. La stampa, il mondo intellettuale di allora, ha giocato un ruolo fondamentale: i giornalisti additavano, i terroristi sparavano. Una dinamica drammaticamente comune a tanti altri omicidi del terrorismo degli anni '70, a partire da quello del commissario Luigi Calabresi. Ecco perché tanti intellettuali, anche quelli solitamente giustizialisti, oggi si riscoprono improvvisamente innocentisti e garantisti.
Nota di BastaBugie: Andrea Zambrano nell'articolo seguente dal titolo "Terroristi coperti, ecco come la Francia viola le leggi" rivela che per la gran parte dei terroristi italiani condannati con sentenza passata in giudicato e scappati all'estero il motivo principale che impedisce che scontino il loro reato in Italia è principalmente politico. Il mandato di arresto europeo infatti è immediatamente eseguibile, ma sempre disatteso dai francesi. Una violazione palese che ora andrà affrontata a livello politico.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 15 gennaio 2019:
Non c'entra la cosiddetta Dottrina Mitterand per i "francesi" e neppure il fatto che in alcuni casi, come quello di Alvaro Lojacono la sua cittadinanza svizzera impedirebbe che sconti la pena in carcere. Per la gran parte dei terroristi italiani condannati con sentenza passata in giudicato e scappati all'estero il motivo principale che impedisce che scontino il loro reato in Italia è principalmente politico.
Da quando nel 2002 è stato siglato da tutti i paesi europei il mandato di arresto europeo non c'è dottrina che tenga. Potrebbero essere estradati immediatamente nel nostro Paese con una procedura molto più semplice rispetto alle pratiche di estradizione con i Paesi sudamericani.
In pratica, la Francia dal 2002 sta contravvenendo a degli obblighi sottoscritti in sede comunitaria ed è la cosa più grave dato che siamo di fronte a una palese violazione delle normative europee.
Riportare dunque a casa i terroristi italiani rifugiati in Francia non solo dovrebbe essere più semplice che con Battisti, ma doveva essere fatto senza troppi intoppi molto prima.
Nulla c'entra dunque la Dottrina Mitterand, cioè la disposizione firmata nel 1982 dall'allora presidente transalpino che dava protezione ai terroristi italiani in Francia perché non veniva riconosciuto l'istituto del pentitismo. E non c'entra per il semplice motivo che questa ormai non c'è più. Ed è dunque sbagliato addossare ad una legge che non è più in corso di validità una responsabilità che invece non ha. E non c'entra più neanche l'ostacolo formale che gran parte dei latitanti sono stati giudicati in contumacia - istituto che la Francia non riconosce - perché l'Italia ha di recente cambiato questa disciplina e potrebbe concordare un nuovo giudizio, se necessario, con lo Stato nel quale è latitante è fuggito, qualora venisse consegnato.
Eppure, la lista è lunga e il premier Matteo Salvini ieri, commentando il felice esito dell'estradizione di Cesare Battisti, ha così avuto buon gioco nel rivendicare il diritto di "andarci a prendere anche gli altri". Per la verità non si tratta neppure di andarli a prendere perché la gendarmerie francese dovrebbe - e non l'ha mai fatto - semplicemente dare corso ad un obbligo di legge che ha e che disattende.
In questo modo i tanti rifugiati sotto le protettive sponde della rive gauche possono sperare di continuare a farla franca, ma dato che ormai la volontà è solo politica, è a livello di politica che si deve sbloccare la situazione. Abbiamo notizia che al nostro ministero della Giustizia stanno riavviando pratiche di estradizione che in passato erano state promosse, ma poi erano state bloccate.
Giorgio Pietrostefani, fondatore di Lotta Continua e condannato per l'omicidio Calabresi è sulle rive della Senna impunito; e così anche Sergio Tornaghi, della colonna milanese della Br. Con loro anche Simonetta Giorgieri, leader delle Brigate rosse toscane condannata all'ergastolo per l'omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo che sulla Senna c'è dagli anni '80. Da prima, precisamente il 1979, sverna anche Narciso Manenti che con i Commandi di Guerriglia Proletaria uccise il carabiniere Giuseppe Gurrieri a Bergamo.
Dal 1982 i cugini danno ospitalità anche a Enrico Villimburgo, condannato all'ergastolo nel processo Moro e per gli omicidi Bachelet, Minervini e Galvaligi e la brigatista di primo livello Marina Petrella, coinvolta nel caso Moro e salvata nientemeno che dall'allora presidente Nicolas Sarkozy. Per tutti loro non si tratterebbe neppure, tecnicamente, di un'estradizione, ma di un adempimento di legge di fronte al quale la Francia non può derogare. E che invece disattende senza alcun motivo.
Non si tratta dunque di una valutazione che Parigi e dunque oggi Macron può fare a discrezione perché il sistema di collaborazione tra tribunali, intelligence e forze dell'ordine è così affinato che non ci possono essere scusanti, come ad esempio addurre il fatto che il reato per il quale sono ricercati non è contemplato nel paese di approdo. Siamo infatti di fronte a omicidi politici, sui quali non ci sono giustificazioni di sorta.
Anche per il caso di Alvaro Lojacono, brigatista della colonna romana che partecipò alla strage di via Fani, è vero che la sua condizione di cittadino svizzero lo mette al riparo da una estradizione, ma questo non significa che - proprio in virtù degli accordi con l'Italia - questi possa scontare il suo reato nel Paese che oggi lo ha adottato. Insomma, deve essere arrestato e detenuto in Svizzera.
E così anche il neofascista Vittorio Spadavecchia, riparato a Londra dal 1982. Diverso invece il caso di Alessio Casimirri e Manlio Grillo, il primo brigatista della strage di via Fani, il secondo ex militante di Potere Operaio: sono entrambi in Nicaragua e hanno cambiato vita. Protetti da una legislazione che rende praticamente impossibile la consegna all'Italia: in Nicaragua infatti la Costituzione impedisce in modo assoluto l'estradizione di un proprio cittadino, e Casimirri lo è avendo sposato una nicaraguegna.
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