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«Cari membri della comunità di Notre Dame»: inizia così la lettera che il reverendo John I. Jenkins, presidente della blasonata università cattolica dell'Indiana, ha indirizzato lo scorso 20 gennaio al campus. Oggetto: "Gli affreschi di Colombo". «Ho deciso che saranno preservati ma non saranno più esposti al pubblico regolarmente e nella loro posizione attuale».
Non c'è pace per la vittima più illustre dell'isteria politicamente corretta americana: abolito il Columbus Day dai consigli americani di Los Angeles, Seattle, Minneapolis, Albuquerque, Phoenix e Denver (per celebrare al suo posto commemorazioni come l'Indigenous and Native People Day), decapitate, imbrattate o fatte a pezzi le sue statue a Baltimora, Houston, New York, Yonkers, entrata nel mirino dei nemici dei «simboli d'odio» la sua effigie a Central Park, per cui è invocato lo stesso destino delle "statue confederate" e dei busti dei generali dell'esercito sudista rimossi dalla Hall of Fame dell'Università di New York perché «New York è contro il razzismo» (copyright il governatore Andrew Cuomo), a farsi paladina della damnatio memoriae di Cristoforo Colombo è oggi la stessa università che nel 1880 commissionò al pittore vaticano Luigi Gregori il ciclo di affreschi raffiguranti la vita e i viaggi dell'esploratore.
IERI MECENATI, OGGI ICONOCLASTI
Realizzati tra il 1882 e il 1884, fonte di ispirazione di una serie di francobolli commemorativi della storia degli States emessi nel 1893, i murales di Gregori «riflettono la mentalità dell'epoca», servivano ad incoraggiare la comunità scolastica, composta in larga parte da immigrati e cattolici, a «sentirsi pienamente e orgogliosamente americana» e si concentravano «sull'immagine popolare di Colombo, un eroe americano, che era anche un immigrato e un devoto cattolico». A incaricare Gregori fu proprio padre Edward Sorin, fondatore di Notre Dame, che dopo averlo conosciuto durante una sua visita alla corte papale nel 1874 lo volle nella sua sede americana per 17 anni.
Tuttavia ora l'odierno successore di Sorin, padre Jenkins, dice di sentire questi dipinti incompatibili con la missione cattolica di Notre Dame: «Per i popoli nativi di questa "nuova" terra la venuta di Colombo fu a dir poco catastrofica. A prescindere da qualunque altra cosa abbia portato il suo arrivo, per questi popoli ha portato allo sfruttamento, all'esproprio della terra, alla repressione di vivaci culture, alla schiavitù e a nuove malattie che hanno causato epidemie che hanno ucciso milioni di persone». È il trito e ritrito discorso del nuovo mondo col pallino delle scuse retroattive, la sindrome dell'"essere figli del tempo", da cui l'apostolato contemporaneo ci vorrebbe tutti immuni e vaccinati (ricordate le rocambolesche scuse del National Geographic? «Per anni ci siamo comportati in maniera razzista nel nostro giornale. Non abbiamo fatto abbastanza per portare i nostri lettori oltre gli stereotipi della cultura bianca americana»).
E non è la prima volta che gli affreschi di Gregori rischiano la censura: già nel 1995 un gruppo di studenti nativi ne aveva chiesto la "rimozione" portando l'università a produrre un opuscolo che cercasse di contestualizzarli. E nel 2017, più di 300 persone tra studenti e dipendenti di Notre Dame firmarono una lettera pubblicata dal giornale del campus per ribadire la necessità della censura.
WOJTYLA TAGLIUZZATO
Ma questa volta ad avallare le ragioni degli iconoclasti abbiamo un testimonial d'eccezione: san Giovanni Paolo II. Padre Jenkins estrapola infatti una frase da un suo discorso agli amerindi del 1987: «Tale incontro [tra le vostre culture tradizionali e lo stile di vita europeo] fu un'aspra e dolorosa realtà per le vostre popolazioni. È doveroso riconoscere l'oppressione culturale, le ingiustizie, la distruzione della vostra vita e delle vostre società tradizionali». Non cita, Jenkins, la parte immediatamente successiva, «nello stesso tempo, per essere obiettivi, la storia deve registrare gli aspetti profondamente positivi dell'incontro tra le vostre popolazioni e la cultura proveniente dall'Europa», elogiativa dei tanti missionari che «lavorarono per migliorare le condizioni di vita e per creare sistemi di istruzione e per far questo impararono la vostra lingua. Soprattutto essi proclamarono la buona novella della salvezza in nostro Signore Gesù Cristo, di cui parte essenziale è l'affermazione che tutti gli uomini e le donne sono ugualmente figli di Dio e come tali devono essere rispettati e amati. Questo Vangelo di Gesù Cristo rappresenta oggi e rimarrà per sempre il maggiore vanto e patrimonio del vostro popolo».
Non la cita perché l'obiettivo dell'università cattolica oggi è sì «preservare le opere artistiche originariamente intese a celebrare i cattolici immigrati che all'epoca erano emarginati nella società», ma farlo senza cercare involontariamente «di emarginare gli altri». Pertanto gli affreschi verranno coperti, e verrà stabilito un comitato per decidere dove e come esporne le immagini ad alta qualità altrove contestualizzandole con un'opera di comunicazione consapevole e rispettosa della «eredità dei popoli nativi, che hanno conosciuto grandi avversità dall'arrivo degli europei».
Sono passati oltre cinquecentoventisei anni dallo sbarco di Colombo, il grande «non santo, ma defensor fidei», come scrisse Paolo Emilio Taviani, oggi accusato di «tutto ciò che è andato storto nel Nuovo Mondo», dal colonialismo alla schiavitù alla segregazione razziale, sebbene in realtà si tratti di «conseguenze che egli non voleva, non si attendeva e non avallava», come ha ben spiegato l'antropologa Carol Delaney in una intervista alla Catholic News Agency del 2014. Non ci meraviglia che Colombo sia odiato da un mondo per il quale la fede è mistificazione, superstizione, fastidio. Ma che una università cattolica si appelli al discorso democratico della discriminazione per mettersi al seguito dei mozzatori di teste di statue, sloggiare il suo patrimonio e proclamare i suoi "mea culpa" usando san Giovanni Paolo II dovrebbe dire, alle nostre teste, ancora qualcosa.
DOSSIER "LA SCOPERTA DELL'AMERICA"
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