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J-AX CANTA L'INNO ALLA FECONDAZIONE ARTIFICIALE
Dalla droga libera al dileggio del Family Day, la parabola di un idolo di bambini e ragazzi
di Luigi Piras

Comunisti col Rolex è il titolo del fortunato album - come vendite - uscito l'anno scorso a firma del duo milanese Alessandro Aleotti (in arte J-Ax) e Federico Lucia (in arte Fedez). Titolo felice, come presa per i fondelli di una categoria quanto mai invasiva. «Conosco più di un punkabbestia col papà avvocato / che fa finta d'esser povero perché non lo è mai stato», canta il duo nel brano che dà il nome all'album, «Figlio di un'impiegata che a 40 anni ha perso il posto / mi sono fatto i soldi con la band e un po' di inchiostro /, dovrei fare come il Jova [Jovanotti, ndr] miliardario sotto costo a fare il vegano e poi mangiare la bresaola di nascosto». Come sberleffo sarebbe anche interessante, purtroppo il tutto finisce per essere un insipido tamburellamento sull'incoerenza generale, perché «la verità è che certa gente ti odia sempre, tanto vale farsi odiare facendo quello che ami veramente». Mentre l'orizzonte ideale che viene tratteggiato sembra essere il gozzovigliare, il godersela, e il ciondolare su Facebook, «perché in fondo il mio ideale è il socialismo reale quello sempre più social e sempre meno sociale». Gioco di parole che comunque merita un like.

TANTI FANS TRA I BAMBINI
Forse la più azzeccata definizione del duo - in realtà divisosi alcuni mesi fa - che voleva sbeffeggiare i «comunisti col Rolex» è stata quella di chi li ha soprannominati «comunisti col Pampers». È questo l'aspetto per cui vale forse la pena spendere alcune parole sui soggetti in questione - ma qui ne prendiamo uno in particolare, J-Ax - ovvero il pubblico a cui ormai fanno, fa riferimento. Che si potrebbe riassumere in un esercito di fan situati tra scuole elementari e medie, o primissime superiori, più genitori, mamme soprattutto, al seguito. Cosa che per altro J-Ax non nega, cantando: «Faccio le foto coi tuoi figli che mi strappano i vestiti è vero, siamo comunisti mangiati dai bambini».

LA PARABOLA DI UN RAPPER
La carriera di J-Ax inizia negli anni '90 con un altro duo, quello degli Articolo 31. È il periodo in cui il genere hip hop, o rap per capirci meglio, inizia a trovare interpreti anche in Italia. Nato negli Stati Uniti come colonna sonora delle periferie degradate, dei ghetti dei neri, come grido di un'America finita sempre più ai margini, tra disoccupazione e droga, il rap è musica assorbita nel ritmo, in un fiume di parole che si fanno ritmo loro stesse. È un'espressione di desolazione, passione, rabbia, con un tocco di elegia, che ricorda per molti aspetti la nascita di un altro genere tipicamente americano e nero, il blues. Un blues postmoderno che esce non più dalle piantagioni dolenti ma dalla giungla urbana. Anche in Italia il rap ha attecchito nelle periferie delle grandi città, Milano, Bologna, Napoli. J-Ax, classe 1972, parte appunto dalla cintura urbana di Milano, alla fine degli anni '80. La materia non gli manca: l'adolescenza fra i casermoni anonimi costruiti per gli operai delle grandi fabbriche che furono, la noia sui banchi di scuola, i genitori divorziati, le bande giovanili, i "tossici", la musica, le luci della grande città e le sue contraddizioni. «Nel mio quartiere erano tutti di destra ma non avevano un soldo, mentre mi accorgevo che quando andavo a Milano in centro tutti quelli con la kefìah erano figli di avvocati» ha raccontato il Nostro. È a quel mondo che danno voce, nel 1993, J-Ax e DJ Jad (Vito Luca Perrini), ovvero gli Articolo 31, con il cd di esordio Strade di città. Un lavoro elementare ma che ha una sua genuinità, anche riascoltato 25 anni dopo, ha un suo senso come fotografia sonora di un pezzo di realtà italiana. Però ciò che di interessante potevano avere gli Articolo 31 inizia e finisce lì. Il seguito sarà una serie di abili operazioni commerciali che porteranno al gruppo e poi a J-Ax come solista successo, soldi, popolarità, ma che ne faranno soprattutto una sorta di amplificatore del pensiero unico collettivo. Una parabola simile, in un certo senso, a quella di Vasco Rossi, che nei primissimi dischi diede voce alla generazione del cosiddetto riflusso, quella che usciva dall'ubriacatura delle ideologie degli anni '70 ritrovandosi con un pugno di mosche, e magari una dose di eroina, in mano, con canzoni che avevano un loro pregio, musicalmente e come testimonianza di un'epoca. Poi è diventato un ripetitivo prodotto di marketing in salsa radicale, nel senso del Partito Radicale. Si fa presto a cantare il vuoto di una generazione, ma così come la natura aborre il vuoto, diceva Aristotele, anche il mondo lo aborre ed è pronto a riempirlo dei suoi contenuti.

CANNA LIBERA E PROVETTA
Per J-Ax i contenuti sono stati, tra gli altri, l'antiproibizionismo, l'inno alla marijuana libera - con tanto di apertura a Milano, recentemente, di un negozio per la vendita della cannabis "legale", quella con bassi valori di thc - l'omaggio a Pannella - «siamo simili perché siamo scomodi» - le posizioni pro invasione di immigrati, il dito medio mostrato in tv al popolo del Family Day, il dileggio di Benedetto XVI, ecc. Nulla di originale e che non si trovi in un'infinità di piccoli o grandi protagonisti dell'industria musicale, si dirà. Vero, con la particolarità, dicevamo, che tale cocktail J-Ax lo ha saputo servire a un pubblico sempre più giovane, anche al di sotto dei teenager. E che non possono non portarsi anche tante mamme al seguito. Un esempio di prodotto confezionato per andare al cuore di queste e quelli è anche l'ultimo singolo del rapper, che ha commosso tanti. Si intitola Tutto tua madre. La canzone è autobiografica e racconta della bellezza dell'arrivo di un figlio nella vita di J-Ax e della moglie Eiaine Coker, ex modella statunitense sposata nel 2007, dopo un aborto spontaneo e anni di attesa vana di una gravidanza. Un testo certamente toccante. Non si può non voler bene al piccolo Nicolas, così si chiama il figlio. Nato, così hanno riportato i giornali, con una fecondazione artificiale di cui J-Ax si è fatto anche promotore in un post su Instagram: «Leggiamo più spesso di iniziative che questo Governo vorrebbe prendere contro la fecondazione assistita e tante altre procedure che aiutano decine di migliaia di coppie italiane a creare una famiglia insieme. [...] Anche perché di certo non è una scelta di nessuno trovarsi in una situazione così, ma si tratta di qualcosa che colpisce tutti trasversalmente, senza favoritismi o pregiudizi: destra, sinistra, leghisti, comunisti, grillini e gente che si nutre solo del proprio respiro. Per questo motivo, prima di andare fino in fondo e negare a centinaia di migliaia di italiani il diritto di avere un figlio, vi chiedo un piccolo gesto di empatia: come vi sentireste voi se, da un momento all'altro, il rumore del respiro e le risate del vostro bambino sparissero? Quel vuoto è quello che vivono tanti italiani come voi. Quel vuoto tanti non desiderano altro che colmarlo con l'amore. E l'amore, voi, o chiunque altro, non avete il diritto di fermarlo».
Già. Peccato che un figlio non sia mai un diritto dei genitori, semmai un loro desiderio. E che il rumore del respiro e le risate cancellate dall'esistenza siano anche quelle delle vite in embrione scartate con la provetta e a cui nessun cantante dedicherà mai una canzone.

 
Titolo originale: Conformismo a ritmo rap
Fonte: Il Timone, novembre 2018 (n. 178)